Quando ero bambino, pressappoco 10 anni di età, la partita di pallone con i miei compagni si svolgeva nella via principale del quartiere, su per giù una ventina di metri, in leggera salita e con le macchine posteggiate ai lati che delimitavano il campo di gioco. L’area di porta era a “occhio” così come l’altezza e a volte dopo qualche “scazzottata” si assegnava un gol o un rigore. Il sabato pomeriggio riunione nella via per formare le squadre e poi la domenica mattina partitona con tutti gli abitanti del quartiere affacciati ai balconi a guardarci. Un pubblico da gusto prelibato. Il sabato una volta fatte le squadre veniva fuori la fatidica domanda:
<<Chi porta il pallone?>>
Eh si. C’era sempre il problema del pallone e c’era sempre un nostro compagno, Piero, che diceva sempre:
<<Lo porto io. Però voglio giocare.>>
Noi sapevamo che Piero era “scarso” e durante la partita non gli passavamo mai la palla, cosa che lo faceva arrabbiare e a un certo punto della interminabile partita, prendeva il pallone con le lacrime agli occhi e se ne andava via lasciandoci senza pallone.
<<Dai Piero dacci il pallone. Ti passeremo la palla. Dai…>>
<<No. Con voi non gioco più.>>
E’ finiva così, a volte, l’impegno calcistico domenicale con i nostri calzettoni bucati e le scarpette di gommapiuma.
Sabato pomeriggio sono andato a vedere una partita dei Pulcini 2008, pressappoco la mia età da ragazzino, che giocavano al torneo “Pulcino di Pasqua”. Le due squadre che si affrontavano con tutta l’energia e la voglia di vincere, gli allenatori che urlavano le posizioni in campo e gli immancabili “genitori-skinheads” che a vederli mettevano quasi paura. Mentre guardavo la partita affascinato da quei indomiti bambini con il pallone (Ah! Come avrei voluto giocare con loro), all’improvviso eravamo nel secondo tempo di gioco, un bambino esce dal campo e si va a sedere piangendo per terra. Il “Mister si china verso di lui e gli chiede cosa fosse successo.
<<Non mi passano la palla. Non mi fanno giocare i miei compagni e allora sono uscito.>>
Il “Mister” cerca di rincuorarlo e fargli capire che ha lasciato i compagni con un giocatore in meno. Il “Papà-arbitro” non sa cosa fare, se fischiare o interrompere la partita, dagli spalti inizia un “tirribillio” di urla e sorpresa per quello strano comportamento.
<<Ma si che resti fuori. E’ pure scarso ogni volta che tocca la palla la “cicca”.>>
Questo sento dire addirittura da un papà tifoso.
Insomma, quel bambino non ne ha voluto sapere di rientrare in campo e rimaneva a piangere con le gambe incrociate sull’erba a testa bassa con qualche lacrimuccia di rabbia con i compagni della “panchina” che cercavano di rincuorarlo. E’ stato come un “flash” di un salto di oltre 50 anni nella mia mente, ero non li ma in una strada di quartiere ad assistere a quella scena.
Finisce la partita (per la cronaca ha vinto la squadra del bambino che era uscito) e come sempre mi avvicino agli spogliatoi. Questa volta volevo vedere quel bambino, guardare i suoi occhi e sentire la sua voce. Dopo un po che aspetto incomincio a vedere i bambini uscire ma lui non lo vedevo, si vede, pensavo, che il “Mister” stava ancora parlandogli e rincuorarlo. Nel frattempo cercavo di indovinare chi fosse il Papà per capire come avrebbe reagito al comportamento del figlio. Eccolo che arriva, accompagnato dal suo allenatore che ha un braccio sulle sue piccole spalle a rincuorarlo. Mi avvicino e mi presento come giornalista di Giocaacalcio, il “Mister” apre un sorriso smagliante convinto che avrei intervistato lui.
No. Sono qui per parlare con il bambino, oggi per me il migliore in campo tra tutti. Mi chino verso di lui che tiene lo sguardo basso, non è abituato alle “interviste”, cerco di guardarlo negli occhi ancora lucidi e le sue manine che cercano di asciugarli.
<<Come ti chiami?>>
<<Piero.>>
Per poco il mio cuore non si arrestò di botto. Un turbinio di pensieri improvvisi affollarono la mia mente. Non riuscivo a parlare e continuavo a guardarlo. Poi ripresomi dall’emozione:
<<Sai Piero, quando ero come te avevo un compagno con il tuo stesso nome e anche lui usciva dal campo perché noi non gli passavamo mai la palla>>.
E’ lui guardandomi con quegli occhi candidi mi dice:
<<Ma il tuo amico gioca ancora al pallone?>>
<<No. Non gioca più. Ma era il nostro migliore amico. Ci portava sempre il pallone per giocare anche se noi non gli passavamo mai la palla e lui si arrabbiava.>>
<<I miei compagni fanno così anche con me. Ma io gli voglio bene anche se non mi passano la palla.>>
Vorrei dirgli tante parole, fargli capire che in fondo è soltanto un gioco e anche se non gli passavano la palla, il suo coraggio e la sua determinazione hanno fatto capire sicuramente ai compagni che lui fa parte della “squadra”, fa parte di loro e il suo “Mister” lo avrebbe fatto capire ai compagni.
Mentre lo saluto, vedo arrivare il papà che tranquillamente lo abbraccia e lo rincuora donandogli un sorriso amorevole che di colpo illumina i suoi occhi e gli fa dimenticare la sua rabbia. E mentre li vedo andare via, il Papà con la sua borsa e lui che sgranocchia un panino, sento dire da “Piero”:
<<Papà mi compri un pallone?>>
Sono sicuro che il Papà gli avrà comparato il pallone che sarà tutto suo e nessuno potrà portarlo via. Si passerà la palla da solo sbattendola contro il muro come faceva il mio amico Piero da bambino, e sono sicuro che il “pallone della vita” gli riserverà tante soddisfazioni.
Piero? Il migliore in campo. In fondo voleva solo giocare al pallone con i suoi compagni!
La redazione (AM)