INTERVISTA - Il selezionatore si racconta, dai maestri del Torino all'esperienza con il club Piemonte: “Il calcio si gioca con i piedi e con la testa, l’ho imparato da Rabitti e Vatta e cerco di trasmetterlo ai ragazzi. Al Torneo delle Regioni abbiamo fatto un percorso stupendo, auguro a tutti i ragazzi di avere la loro chance nel professionismo: date sempre il massimo che le occasioni arrivano”
Profonda competenza delle dinamiche del calcio, esperienza dentro e fuori dal campo, carica umana di spessore assoluto, mescolate in un sapiente mix di umiltà e simpatia. Franco, o se preferite Franchino Di Nuovo non ha mai amato i riflettori, ma il titolo nazionale appena conquistato al Torneo delle Regioni, come selezionatore della rappresentativa Under 15 Piemonte e Valle d’Aosta, lo ha portato di peso al centro della scena. E allora, microfono alla mano, andiamo a conoscerlo meglio, perché certi successi non nascono mai per caso.
Mister, prima di tutto complimenti: diventare campione d’Italia non capita tutti i giorni…
“È stato un bel percorso, coronato dal successo finale, i ragazzi lo hanno meritato soprattutto come gruppo, ognuno ha tirato fuori tutto quello che aveva dentro, pensando sempre al bene della squadra prima che al proprio interesse. Questo ha fatto la differenza. Auguro a tutti di avere la possibilità, almeno la possibilità, di passare nel professionismo, si meritano la loro occasione”.
Quella del 2009 è un’annata importante, ci sono tanti giocatori forti.
“Sì, devo dire che erano belle squadre anche le altre, ho visto un livello molto alto in tutta la competizione. Io ho fatto giocare tutti, li ho tenuti sempre sulla corda e mi hanno risposto nella maniera migliore”.
Vuol dire che un po’ di merito ce l’ha anche il timoniere, no?
“Un po’ di esperienza ce l’ho e ho avuto grandi maestri”.
Fuori i nomi.
“A 14 anni dall’Eureka Settimo, allora si chiamava così, sono passato al Torino. Mi ricordo ancora tutti i miei allenatori: ho cominciato con il signor Marchiò, poi il signor Fantinuoli, il signor Dalla Riva…”
Facciamo una pausa. Signor?
“Certo, allora non esisteva mister, ci si rivolgeva così agli allenatori, con una forma di rispetto che, secondo me, si è un po’ persa. Ma così è, ormai mi sono abituato, tutti mi chiamano mister…”
Continuiamo con i signori, allora.
“Il signor Marchetto, il signor Sattolo, e poi c’era ancora il più grande di tutti, come persona e come maestro di calcio, il signor Rabitti, supervisore del settore giovanile. Oberdan Ussello, una grande ala che era il responsabile delle giovanili, lo aveva portato al Torino dalla Juventus, una cosa fuori dal mondo allora. Dalla sua scuola è venuto fuori il signor Vatta, che ho avuto in Primavera”.
Primavera di cui sei stato capitano
“Ero capitano di un gruppo stupendo: Bonesso, Sclosa, Mariani, Cuttone, Mandorlini, Paganelli, Camolese, tutta gente che ha fatto una grande carriera e lavorato anche dopo per il Torino. Sono stato convocato tante volte in prima squadra ma non ho mai avuto la fortuna di esordire. Ricordo che sono andato a Stoccarda, in Coppa Uefa, ma sono rimasto in tribuna. Ero in camera con Mandorlini, che invece ha giocato e marcato bene Hansi Muller, da lì è partita la sua carriera”.
Anche tu hai fatto una bella carriera e poi lavorato per vent’anni con il Torino.
“La mia sfortuna è stata avere la pubalgia nel momento migliore: sono passato dal Torino all’Empoli a San Remo, due anni di infortunio in cui ho perso autostima e convinzione. Poi ho fatto tanta serie C e un paio di anni nei dilettanti, ma ho smesso presto, a 30 anni”.
La fortuna gioca una componente fondamentale, nel calcio.
“Nel calcio la capacità è fondamentale. Poi devi trovare le persone giuste al momento giusto, e la fortuna di non farti male. A me questi aspetti sono mancati”.
Da lì è iniziata la tua carriera da allenatore.
“Un amico che allenava nell’Eureka mi ha chiamato, ho cominciato lì e ho visto che mi piaceva, così ho fatto il corso allenatori. La buonanima di Gigi Gabetto, allora responsabile delle giovanili, mi ha portato al Torino, ho incominciato con l’annata 1990, nei Pulcini. Il responsabile della scuola calcio era Salvatore Barbieri, poi ho continuato con Comi e Benedetti, avevo allenato i loro figli, che sono del ‘92. Quando è arrivato Cairo, nel 2005, ha deciso di tagliare tutti i secondi gruppi e mi sono ritrovato fuori. Ho pianto, non lo nego. Ma il calcio e la vita offrono sempre, o quasi, una seconda occasione”.
Raccontaci la tua.
“Sono andato a Beinasco insieme al gruppo degli “epurati” e abbiamo fatto una bella stagione. Al torneo di Cairo Montenotte abbiamo vinto tutte le partite, prima con le dilettanti e poi con le professioniste, e ci siamo ritrovati in finale, guarda caso, con il Torino. E abbiamo vinto ai rigori, è stata una grande soddisfazione per me e per i ragazzi, 4/5 di loro sono tornati nel professionismo. E anche io, l’anno dopo, sono rientrato al Torino, dove ho continuato ad allenare fino ma tre anni fa. Ho sempre allenato per far crescere i ragazzi, non conta vincere ma insegnare calcio. Stop, recezione, trasmissione e poi il gol, che racchiude tutto, ma non arriva da solo”.
Torniamo da dove eravamo partiti, mister… anzi signor Di Nuovo. In questo percorso si è inserita la rappresentativa. Quanto è difficile fare il selezionatore, che è un mestiere ben diverso da quello di allenatore?
“Molto difficile. Insieme a Massimo Storgato e al mio vice Simone Ferrari, abbiamo cercato i pezzi giusti di un puzzle, con il limite dei tre convocati per squadra. Direi che ci siamo riusciti, ma con delle rinunce dolorose: penso a Aron Persiano del Lascaris, ragazzo a modo e con qualità enormi, o Filippo Bracchi, difensore del Gozzano. Meritavano, come mi sarebbe piaciuto dare più spazio a Piciano, ma il ruolo del portiere è particolare e Rostagno ha sempre fatto bene, in finale ha fatto una parata da serie A. Discorso diverso per i giocatori di movimento, loro hanno giocato tutti”.
Chi ha fatto la differenza?
"Tutti, ognuno nel suo momento. Chi entrava dalla panchina, ha sempre dato qualcosa in più. Aversano è stato un crack tutte le volte che è entrato nel secondo tempo, come Cavazza a tutta fascia, Ferello ha avuto meno minutaggio ma in semifinale ha fatto differenza a centrocampo".
E chi, secondo te, ha più chances di imporsi anche nel professionismo?
"Io spero che tutti abbiano la loro chance. Prima di tutto perché sono bravi ragazzi, da padre di famiglia vorrei avere figli così. In albergo, sul pullman, si sono sempre comportati nella maniera giusta. E poi perché hanno qualità importanti. Ormai le professioniste guardano prima di tutto all'estero, ma ci rendiamo conto che in Italia abbiamo ragazzi con qualità enormi? E basta cercare quelli grandi e grossi, il calcio si gioca con i piedi e con la testa. Guarda ragazzi come Scanavino o Catanzaro: se arrivi sempre prima sulla palla, vuol dire che hai qualcosa in più, hai intelligenza calcistica. Quello più forte adesso, lo vedono anche i ciechi, ma bisogna guardare anche un po’ in prospettiva".
La tua prospettiva? Ancora rappresentativa?
"Sabato facciamo una festa, poi parlerò con Storgato. Certo che mi piacerebbe continuare".
Chiudiamo con una dedica per il titolo nazionale.
"A tutti i ragazzi, anche quelli che hanno partecipato a un solo raduno ma poi sono stati esclusi. Con una preghiera: non abbattetevi mai, date sempre il massimo, perché da un momento all’altro può arrivare l’occasione giusta”.