Mercoledì, 02 Aprile 2025
Individual soccer school

Individual soccer school (33)

Ciao Diagne, prima di parlare del calciatore che sei diventato, raccontaci del ragazzo: dove e quando è cominciata la tua passione?

“La mia passione per il calcio è iniziata fin da bambino. Vivevo in Senegal con mia nonna in un quartiere chiamato HLM, un comune d’arrondissement della città di Dakar. Ricordo che vicino alla nostra abitazione c’era un campo da calcio e io, che ero solito andare a scuola da solo, spesso anziché entrare in aula finivo a giocare a pallone... era più forte di me. Poi la scuola chiamava a casa dicendo che non ero presente e mia nonna puntualmente veniva di corsa a cercarmi. Ricordo ancora i suoi rimproveri, ma già allora il calcio per me era tutto”.

Ora sei un giocatore di livello mondiale, ma non tutti sanno che la tua è una storia di calcio fantastica, dalla prima categoria a 19 anni ai massimi campionati mondiali e alla finale di Coppa d’Africa. Cosa ti ha portato così in alto? Cosa è rimasto di quel ragazzo che calcava i campi del calcio dilettantistico?

“Vengo da una famiglia davvero povera, non avevamo quasi niente. Cosa mi ha spinto? La voglia di dare alla mia famiglia ciò che altrimenti non avrebbe mai potuto avere: una vita serena. Per farlo avrei dovuto realizzare il mio sogno: diventare calciatore professionista. Ho fatto tanti sacrifici, sono arrivato in Italia da solo a 17 anni senza la mia famiglia. Non è stato facile, riesco ancora a sentire il freddo entrarmi nelle ossa, non riuscivo a giocare, non avevo amici, non parlavo l’italiano. È stata davvero dura, ma alla fine Dio mi ha ricompensato. Da allora per me non è cambiato nulla, non dimentico mai da dove sono partito; ricordo con grande affetto tutti i miei compagni di squadra, i mister che mi hanno sempre supportato e i tifosi, davvero splendidi. Il Bra per me è stato un trampolino di lancio, a loro devo tutto”.

Se in questo momento dovessi descrivere il “calciatore Diagne” cosa diresti? Qualità? Punti di forza? Raggio d’azione? Le tue caratteristiche sono cambiate nel corso degli anni?

“Sono un attaccante dalla grande forza fisica, tra i miei punti di forza ci sono sicuramente la determinazione nella tre quarti avversaria e la sicurezza sotto porta. Su queste qualità ho costruito la mia carriera e con il passare del tempo ho imparato a sfruttarle al meglio. Logicamente l’esperienza aiuta, ogni partita ti permette di crescere e migliorarti. Tutte le situazioni, tutti gli errori ti formano e ti portano ad affrontare ogni momento con un’altra testa. Sicuramente il Diagne di oggi unisce alle qualità l’esperienza accumulata negli anni; giocare con esperienza per me significa fare più gol”.

In Senegal, come in molti paesi dell’Africa, il calcio è più di un gioco, quasi una ragione di vita. Cosa ha rappresentato per te vestire i colori della tua Nazionale sfiorando la vittoria della Coppa d’Africa? Cosa ti resta di questa esperienza?

“Per me rappresentare il Senegal è un onore, amo la mia terra e vestire i colori della nazionale è sempre stato il mio sogno; farlo nella Coppa d’Africa arrivando a giocare la finale è stato qualcosa di indescrivibile. Purtroppo non abbiamo vinto, ma porterò nel cuore ogni istante di quell’esperienza e ogni momento in cui ho potuto indossare i colori del mio paese. Ogni giorno lavoro duramente e spero di poter tornare a far parte della nazionale e a rappresentare il Senegal”.

Il tuo vissuto ti identifica come globe-trotter del calcio con il vizio del gol: 113 in 230 partite. Qual è il campionato in cui è stato più difficile segnare?

“Il calcio è cambiato, si è evoluto e per un attaccante fare gol è sempre più difficile; non esiste un campionato in cui segnare sia più semplice. I difensori sono forti, le squadre sono preparate tatticamente e ti lasciano pochi spazi, ti studiano. È vero ho segnato molti gol, ma ognuno di questi è stato frutto di lavoro individuale e di squadra, capacità tecniche, concentrazione, cattiveria”.

ISS crede fermamente nella crescita di giocatori che facciano della tecnica uno dei propri punti di forza, quanto è importante per un giocatore di alto livello curare il dettaglio e i minimi particolari?

“È importantissimo, più si alza il livello più aumenta la velocità di gioco, il pallone viaggia rapidamente e di conseguenza diminuisce il tempo disponibile per pensare e mettere in pratica ogni giocata. Saper gestire e padroneggiare ogni gesto tecnico fa quindi la differenza, soprattutto ad alti livelli”.

Sappiamo che molti calciatori di livello mondiale hanno sempre scelto di dedicare del tempo all’allenamento della tecnica individuale. Qual è il tuo parere in merito?

“Sono d’accordo, oggi il calcio professionistico ha raggiunto livelli altissimi e ogni giocatore deve fare di tutto per performare al meglio. Lavorare sulle proprie qualità, a volte su una sola giocata o su un solo gesto richiede molto tempo e sacrificio, ma diventa un valore aggiunto ai fini della prestazione in campo”.

Quanto pensi possa essere importante la presenza di un centro di formazione che segua personalmente i giovani calciatori nella loro crescita tecnica? Credi che perfezionando il singolo fin dal principio si possa contribuire ad ottenere nuove generazioni migliori?

“Sarebbe sicuramente un valore aggiunto. Purtroppo da bambino non ho avuto la possibilità di intraprendere un percorso del genere, ma sono sicuro che per un ragazzo che vuole giocare a calcio, affiancare al lavoro di gruppo la cura di ogni gesto in forma individuale possa dare benefici incredibili, sia per la crescita di singoli giocatori che del movimento calcistico in generale”.

Belgio, Arabia Saudita, Ungheria, Cina, Inghilterra e Turchia. Modi diversi di fare calcio e soprattutto culture diverse. Quale di questi mondi ti ha affascinato di più?

“Ho giocato in molti campionati e vissuto in molte città, ma se devo sceglierne una dico Istanbul: è una città che amo, molto vivibile, piena di vita, ricca di storia e di cultura”.

Visto il tuo percorso, quali sono le motivazioni che un ragazzo che gioca in una squadra dilettante deve avere per continuare a inseguire il proprio sogno? Quale consiglio ti senti di dare?

“Ai ragazzi dico questo: non rinunciate ai vostri sogni! Credeteci sempre! Non sarà facile, nulla vi sarà regalato e niente arriverà per caso; serviranno tanti sacrifici e magari passerete attraverso delle delusioni, ma se avete un sogno inseguitelo, non smettete mai di lottare e sarete premiati. Ricordando da dove sono partito, se dovessi riassumere tutto il mio percorso con una sola parola, direi senza dubbio “sacrificio”. Amo il mio lavoro e rifarei tutto ciò che mi ha portato a diventare il calciatore e la persona che sono ora”.

Ultima domanda, guardiamo al futuro… cosa c’è all’orizzonte? O cosa vorresti che ci fosse?

“Futuro? Non si può mai prevedere. Come vi ho detto amo il calcio e spero di continuare a giocare per altri anni finendo la mia carriera al meglio”.

LA CARRIERA

Sono tantissime le squadre in cui ha giocato (e segnato) Mbaye Diagne, possente centravanti (193 cm per 82 kg) classe 1991. Il primo salto è dal Brandizzo a Bra, dove segna 23 gol in 29 partite e contribuisce alla promozione in Lega Pro. Da lì passa alla Juventus, ma non giocherà mai con la maglia bianconera, e inizia una serie di prestiti poco fortunati: Ajaccio in Francia, Lierse in Belgio, Al-Shbab in Arabia Saudita e Westerlo ancora in Belgio. Viene quindi venduto all’Ujpest, in Ungheria, e inizia a segnare a raffica: 11 gol in 14 partite. Va quindi in Cina al Tiamjin Teda, poi passa in Turchia al Kasimpasa, dove esplode e segna 32 gol in 34 partite, in una stagione e mezza. A gennaio 2019 lo compra il Galatasaray per 10 milioni di euro e vince il titolo di capocannoniere della lega turca. Va quindi per 6 mesi in prestito al Bruges, club belga che gioca la Champions League, torna al Galatasaray, va ancora in prestito in Inghilterra al West Bromwich, quindi un nuovo ritorno a Instambul. Dal 2022 gioca, sempre in Turchia, al Fatih Karagumruk, dove ha già segnato 15 gol in 23 partite. In carriera, ha sommato 289 presenze (più 11 con la nazionale del Senegal) e segnato 165 gol. Niente male…

In breve, raccontaci di te.

Mi chiamo Gregory Leperdi. Nel 2018 ho terminato la mia carriera di hockeista su slittino. Sono sempre stato uno sportivo: da ragazzo praticavo soprattutto il basket; al tempo stesso mi piaceva mettermi in gioco con diversi sport: tennis, calcio e snowboard. All'età di venticinque anni sono stato vittima di un incidente molto grave a causa del quale ho perso la mia gamba sinistra. Dopo l'incidente ho ricominciato a fare attività grazie ad una protesi che mi ha permesso in un primo tempo di cimentarmi nell'atletica (ottenendo anche record nel lancio del giavellotto e nel pentathlon) e, in seguito, a intraprendere la strada del para-ice-hockey. Nel 2006 ho preso parte alle Paralimpiadi invernali di Torino indossando la maglia della Nazionale italiana: da quel momento la mia lunga avventura "su ghiaccio" ha visto la conquista di quattro titoli nazionali e la partecipazione a quattro Europei (ottenendo un oro e un argento), sei campionati Mondiali e quattro Paralimpiadi.

Dopo l'incidente, qual è stata la "spinta" che ti ha dato la forza di andare avanti e percorrere la strada dello sport?

È stata fondamentale la vicinanza della mia famiglia, dei miei amici e in particolare di mio fratello che mi ha fatto scoprire cosa erano in grado di fare gli atleti muniti di protesi: ho iniziato così a immaginarmi di fare attività sportiva. Dopo l'incidente, uno dei primi sport che ho praticato è stato lo snowboard (di cui, fin da ragazzo, son stato un grande appassionato). Inizialmente ho trovato numerose difficoltà, tuttavia grazie a una particolare protesi non ancora sul mercato ho avviato un percorso che mi ha portato in primo luogo a testare questo apparecchio e, in seguito, a contribuire alla sua messa in commercio. Successivamente ho iniziato a vedere se vi erano gare: all'epoca lo snowboard non era ancora considerato disciplina paraolimpica; ho iniziato così a contattare persone in Canada, Australia e Nuova Zelanda. In questo modo ho dato il via alle prime competizioni: penso che tutto ciò abbia contribuito alla creazione della relativa disciplina paraolimpica, nel 2014.

Persone come te hanno portato un radicale cambiamento nello sport degli atleti con disabilità: qual è il messaggio che ti senti di dare ad un ragazzo, disabile e non, che inizia a praticare una attività sportiva?

Il messaggio da far passare è che lo sport è soprattutto divertimento. Il consiglio che mi sento di dare è quello di provare discipline diverse, cercando quella che più si addice e permette di sentirsi bene. Lo sport - al pari della meditazione, della musica e dell'arte - è un mezzo per sentirsi meglio, un momento dove la quotidianità sparisce lasciando spazio al solo divertimento. Bisogna cercare la propria passione: provando e sperimentando si trova la strada.

Quale sport senti più tuo?

Ho praticato numerosi sport e ogni volta li ho sentiti tutti miei. Quello che mi ha regalato più emozioni e risultati è stato l'hockey su ghiaccio: mi ha permesso di rappresentare la mia nazione dandomi la possibiltà di partecipare a manifestazioni.

Tu conosci bene l'allenamento e i sacrifici che lo sport richiede. Il nostro Centro di Formazione cerca di infondere nei bambini la cultura del lavoro e la disciplina: quale consiglio puoi darci per migliorare la nostra efficacia?

Sono convinto che allenamento, sacrificio, dedizione e voglia di migliorare siano fondamentali: la testa può fare la differenza, bisogna volerlo. L'obiettivo che ogni sportivo deve porsi è quello di tirar fuori il meglio di sé e non importa se non si arriva al traguardo prefissato: se si è fatto il possibile non si devono avere rimpianti, va bene lo stesso!

Quali progetti hai per il tuo prossimo futuro?

Voglio introdurre la disciplina del para-standing-tennis, una variante del tennis dedicata a chi pur avendo disabilità fisiche è in grado di muoversi e giocare senza carrozzina. Ad oggi l'unica disciplina paraolimpica è su sedia a rotelle, tuttavia vi sono numerosi atleti che giocano stando in piedi ma ne sono esclusi perché privi di un braccio.

LA CARRIERA

Gregory Leperdi è un ex hockeista su slittino nato in Francia, ma naturalizzato italiano. Con la Nazionale ha disputato tutte le edizioni dei tornei ufficiali dall'esordio degli azzurri nel 2005; quattro edizioni dei campionati europei, sei dei campionati mondiali e quattro edizioni dei giochi paralimpici invernali.

Ciao Tatiana, sei partita dal campetto di Isola del Liri, in provincia di Frosinone, per arrivare al Campionato del Mondo con la Nazionale italiana e allo Scudetto con la Lazio: due parole per descrivere questo tuo formidabile percorso.

Il mio percorso è stato straordinario anche grazie al fatto di aver conosciuto allenatori e preparatori di livello che mi hanno insegnato le malizie giuste per diventare una grande calciatrice; ovviamente dietro al successo vi sono stati tanti sacrifici e dedizione da parte mia. Arrivare al Mondiale è il sogno di tutti i bimbi - femmine e maschi - che iniziano a praticare questo sport.

Calcio femminile: il cambiamento a livello mediatico è sotto gli occhi di tutti, basti pensare che Uefa Women’s Euro 2022 è stato trasmesso in tutto il Mondo è seguito da 365 milioni di spettatori in tv, e in streaming. Cosa è mutato invece a livello tecnico?

A livello tecnico vi sono stati molti cambiamenti: finalmente si curano aspetti tecnici nello specifico come per esempio la tecnica di base, la tecnica funzionale e, soprattutto, la tecnica individuale. Ne è esempio il fatto che sono nate molte scuole di calcio individuale per curare questi aspetti a livello del singolo, nell’ottica di integrare l'individuale e collettivo.

La crescita esponenziale del movimento calcistico femminile sta consentendo a molte bambine di inseguire il proprio sogno fin da piccole, all’interno di organici totalmente in rosa. Un tempo non era così: cosa hanno rappresentato per te i primi anni passati a giocare con i maschietti? Sono stati un vantaggio?

Il mio percorso è stato diverso: da bambina ho sempre giocato con i miei fratelli, con mia sorella e con altri bambini nei campetti di zona; la prima vera squadra è stata femminile, avevo 10 anni e sono andata direttamente in prima squadra dato che la società non aveva un settore giovanile. In generale, penso che aver giocato da bambina con i maschi sia stato un vantaggio: all’epoca il livello del calcio femminile non era alto e con i maschi miglioravi la velocità di esecuzione.

Sei stata una centrocampista di qualità, hai indossato la maglia numero 10 della Nazionale e ora siedi in panchina. Quanto è importante la parte tecnica nelle tue sedute di allenamento? E in gara? Come riesci a trasmettere questa componente alle tue giocatrici?

Sono molto appassionata di tecnica e tattica e nelle sedute di allenamento le curo moltissimo. Mi piace trasmettere alle mie giocatrici l'importanza di gestire il gioco tramite un corretto dominio e controllo della palla e una esecuzione veloce della giocata.

Nel calcio di oggi (soprattutto in Italia) prevalgono fisicità, tattica e velocità di pensiero. Può essere realizzabile il sogno di un “sistema calcio” che metta nuovamente al centro il dominio e la gestione del pallone?

Certo che possa essere attuabile ma bisogna crederci e bisogna credere nel lavoro che porta a questo risultato. Nell'immediato può sembrare un lavoro pieno di difficoltà, tuttavia con il tempo dà i suoi frutti.

La nostra esperienza in Australia (nazione ospitante dei Mondiali 2023) ci ha permesso di scoprire un mondo in cui il calcio femminile è al centro di tutto il movimento sportivo: staff di professionisti, centri di formazione e appeal a livello mediatico hanno fatto sì che il numero di atlete praticanti questo sport sia cresciuto negli anni. Cosa ci separa da queste realtà? Pensi che la nascita di ISS Women possa contribuire a colmare parte di questo gap?

Da queste realtà ci separano anni di lavoro e scarsi investimenti da parte dei nostri vertici che per molto tempo sono stati assenti; inoltre, penso che avere staff professionali, ben preparati e aggiornati, faccia la differenza nel far crescere il livello. In questo senso ISS Women cercherà di aiutare a colmare il gap attraverso una preparazione rigorosa delle istruttrici e degli istruttori.

Per noi la nascita di ISS Women rappresenta il fiore all’occhiello della stagione 2022/23: che valore può avere la presenza di un centro di formazione a livello nazionale per la crescita delle giovani calciatrici?

ISS Women ha come obiettivo - e in questo senso mi auguro che possa essere un punto di riferimento - aiutare le giovani calciatrici a colmare le piccole lacune e a curare quei dettagli che non sempre possibile correggere quando si è in gruppo con tutta la squadra.

Sei la nuova responsabile di ISS Women, come intendi approcciare questo ruolo?

Sono molto contenta e onorata di entrare a fare parte di ISS Women e non vedo l'ora di iniziare. Sento una grande responsabilità verso questo ruolo e mi impegnerò al massimo per trasmettere le mie conoscenze e cura del dettaglio agli istruttori e alle ragazze. È importante far raggiungere la consapevolezza dei propri mezzi e una mentalità vincente ma questo si ottiene attraverso il raggiungimento di piccoli obiettivi positivi che fortifichino la loro consapevolezza.

Infine, cosa ti ha portato a diventare nostra allieva all’età di 30 anni? È vero che non si smette mai di imparare?

Ho iniziato a frequentare ISS Women a 30 anni perché a quell’epoca giocavo fuori sede e avevo la necessità di allenarmi i primi giorni della settimana. Ho scoperto un “mondo" altamente professionale che ha saputo migliorarmi e correggere alcuni miei gesti tecnici come nessuno aveva mai fatto nonostante i tanti anni di esperienza come calciatrice ad alti livelli. Ho migliorato la presa di decisione in base alle diverse situazioni in campo e ricordo di essere rimasta stupita di come alla mia età avessi ancora margini di miglioramento… Quindi non bisogna mai scoraggiarsi.

LA CARRIERA

Tatiana Zorri è la nuova responsabile di ISS WOMEN. Ha fatto parte della Nazionale italiana che ha partecipato al Campionato mondiale nel 1999 e ai Campionati europei nel 2001, nel 2005 e nel 2009, vestendo la maglia azzurra in 155 incontri e realizzando 22 reti.

Per informazioni su ISS WOMEN: info@individualsoccerschool.it

Mister Sannino, partendo da zero lei ha attraversato tutte le categorie, arrivando fino alla serie A: ci racconti in breve questo percorso esemplare.

Devo dire grazie ai dieci anni di “gavetta” fatta nel calcio giovanile, dove ho potuto sperimentare le mie idee con i giovanissimi, dando un contributo nel loro momento critico di crescita. A chi mi chiede “cosa è il bello del calcio?” rispondo: dare ai ragazzi la possibilità di avere un sogno. E con molti di loro – anche chi è arrivato ad alti livelli – sono ancora in contatto, allievi che magari ho avuto quando ho iniziato la mia carriera di allenatore, 35 anni fa, dopo essermi ritirato dal calcio giocato.

Che consiglio darebbe ai ragazzi che desiderano intraprendere il mestiere di allenatore?

Inizierei dicendo che rispetto al passato è cambiato tutto. Trenta, quaranta anni fa il percorso da seguire, anche se lungo e impegnativo, era noto: bisognava fare sempre e comunque la “gavetta”. Oggi le variabili sono così numerose che pianificare un andamento lineare è impossibile.

Lei ha avuto numerose esperienze all’estero: Inghilterra, Grecia, Ungheria, Libia, Svizzera. Quale di queste le ha lasciato il ricordo più intenso?

Sicuramente l’Inghilterra, per il modo di intendere il calcio, per la serenità – potrei dire – che circonda l’ambiente, pur senza perdere di vista il risultato. Ma anche per la bellezza degli impianti, per la cultura del lavoro, per la voglia di primeggiare senza dimenticare i valori fondanti dello sport. È l’unico paese in cui ho visto fare il “terzo tempo”. Anche nelle sconfitte, a fine partita, ci si ritrova insieme alla squadra avversaria a parlare, mangiare e bere. Un modo e un mondo che a noi sembra lontano anni luce. E ancora, il rito di andare allo stadio portando la famiglia, i bambini, gli anziani. Da sottolineare inoltre l’assenza di malizia, di malafede, nei giocatori: se un calciatore simula l’aver ricevuto un fallo, viene fischiato dai suoi stessi tifosi. E tu che vince o perda, fino all’ultimo secondo giochi la partita, andando all’attacco e cercando di fare gol. Anche l’Ungheria mi ha colpito positivamente: calcisticamente è crescita tantissimo, la nazionale da qualche anno sta facendo bene (grazie anche alla guida di un tecnico italiano), hanno impianti sportivi e training center avveniristici e hanno investito in modo importante nel settore giovanile.

Secondo lei cosa hanno meno i settori giovanili in Italia rispetto ad altri paesi europei?

In serie A i settori giovanili – apparentemente – sono ben strutturati. Tuttavia i risultati non appaiono all’altezza: tranne rarissime eccezioni (penso all’Atalanta e negli ultimi tempi anche alla Juventus) pochi ragazzi della Primavera arrivano in prima squadra. Inoltre pochi tra i nostri giovani calciatori fanno esperienza all’estero. Questo ovviamente si riflette sul campo: i risultati delle squadre italiane nella Young League sembrano confermarlo. E di nuovo ritorniamo al discorso della “cultura” (chiamiamola così) del calcio nel nostro paese: se un giocatore azzecca tre partite di seguito diviene subito un fenomeno; tuttavia se subito dopo ne sbaglia due cade inesorabilmente nell’oblio. Questa variabilità di giudizio ovviamente è nociva: alimenta false aspettative e allontana dall’idea fondante che è “dare solide basi al giocatore”. Così si dimentica che l’esperienza si fa sbagliando e solo dando continuamente la possibilità di agire si impara.

Da anni noi di ISS focalizziamo la didattica sull’errore tecnico del singolo: siamo quindi condizionati nel leggere le partite. Ma un allenatore come lei cosa vede in campo?

Chi privilegia la lettura tecnica (pensiamo ad Allegri) chiede giocatori che siano tecnici. Per quanto mi riguarda, voglio che i miei giocatori esprimano le proprie qualità (tecnica e fantasia: giocate di prima, dribbling, tiro; ma anche saper temporeggiare se è il caso ben sapendo che possono sbagliare (ad esempio perché c’è un comportamento tattico errato da parte dei compagni, di chi si muove senza palla). Io chiedo ai miei giocatori: in zona di campo “1” (il primo terzo dell’area di gioco) un gioco più semplice possibile, partendo dal portiere o dopo un recupero palla;  in zona “2” (il secondo terzo di campo) di essere quanto più veloci possibili nel pensare alla giocata; in zona “3” (l’ultimo terzo) che si metta a frutto la creatività del singolo. In questo modo, pur dando una evidente impronta tecnica, lascio ai miei giocatori una grande libertà di esecuzione.

Ma in allenamento, a livello di massima serie, si riesce a lavorare per correggere il gesto tecnico.

Sì, in serie A è ancora importante. Grazie allo staff dei collaboratori tecnici che ho avuto, sono riuscito a operare bene in questo senso, per comparti e a gruppi di due-tre giocatori. Ad esempio, i difensori venivano allenati a colpire di testa; i centrocampisti al modo di ricevere la palla; gli attaccanti allo stop di petto e al calciare, eccetera. Tuttavia a volte il giocatore che è “arrivato” pensa sia solo una perdita di tempo. Bisogna quindi lavorare su questo aspetto: è un problema di “cultura” del singolo e della sua sensibilità nel comprendere che si può sempre migliorare.

Quindi lei come valuta una scuola come la nostra, che opera nella correzione del singolo gesto tecnico ai fini della crescita piena e consapevole del calciatore?

L’aspetto peculiare del vostro insegnamento è l’essere individuale: il giocatore esce così dalla dimensione del collettivo ed entra in una situazione su misura per lui. Tuttavia, come ho detto poc’anzi, un giocatore “esperto” deve avere molta umiltà per rendersi conto del beneficio che ciò gli può dare: io vorrei avere tutti i miei giocatori così, con questa umiltà.

Se magicamente potesse tornare in una città in cui è già stato, dove vorrebbe andare?

Dove non sono ancora andato! A 65 anni ho ancora tanta voglia di mettermi in gioco, di pormi nuovi obiettivi. In questo momento sto allenando una squadra di prima lega elvetica: è composta da semiprofessionisti, ragazzi che hanno una occupazione e che al termine delle otto ore lavorative vengono ad allenarsi. Per me è come se fossi in serie A: le soddisfazioni che ho con ragazzi cos’ motivati, che ascoltano, sono impagabili. Il mio girovagare per il mondo è dovuto alla ricerca continua di questo entusiasmo, potrei dire infantile, nel giocare: è la cosa che più mi rende felice.

LA CARRIERA

Dopo aver allenato le giovanili di Voghera, Pavia, Monza, Como, Giuseppe Sannino approda al professionismo nel 1996, scalando negli anni le varie categorie per arrivare nel 2011 in serie A con il Siena. Fanno seguito le panchine di Palermo, Watford (seconda divisione inglese), Catania, Capri, Salernitana, Triestina, Levadiakos (prima divisione greca), Novara, Honved Budapest (prima divisione ungherese), Al-Ittihad Tripoli (prima divisione libica), Nocerina. Attualmente allena il Paradiso Lugano, che milita nella terza divisione svizzera.

 

Individual Soccer School (ISS) è un centro internazionale di formazione tecnico calcistica individuale, che opera in diverse regioni d'Italia e, da questa stagione, anche all'estero.

ISS nasce nel settembre 2010 a Pianezza, in provincia di Torino, sulla base di una considerazione apparentemente banale, ma quantomai vera: la constatazione della mancanza del ruolo, nel mondo del calcio, dell'istruttore individuale. Da una attenta osservazione delle routine di allenamento effettuata sia nei contesti sportivi nazionali che internazionali, è apparso evidente come la cura del gesto tecnico fosse trascurata rispetto ad altri momenti dell'allenamento, che mettevano in gioco fisicità, forza e velocità, intelligenza tattica e altri fattori di natura caratteriale. Ma ancora di più ha colpito l'assoluta mancanza di un vero e proprio centro di formazione costruito attorno all'insegnamento della tecnica individuale nel gioco del calcio. In questo senso l'obiettivo di ISS è potenziare capacità, attitudini sportive e comportamentali di tutti gli atleti/e a cui si rivolge nella fascia di età compresa tra i 6 e i 20 anni, mediante programmi didattici differenziati e modulati secondo il livello di crescita o abilità raggiunti.

Inoltre Individual Soccer School propone a società calcistiche, dilettanti e professionistiche, una collaborazione tecnica con programmi specifici. Il corso di formazione per istruttori presenta una concreta opportunità di conoscere e condividere il metodo ISS mediante un programma specifico di preparazione teorica e sul campo.

Il centro di formazione annovera undici sedi distaccate in Italia e tre all'estero; è presente a Bassano del Grappa, Bolzano, Trento, Monza, Ornago, Trezzo sull'Adda, Olbia, Tempio Pausania, Charvensod, Ospedaletti, Palermo. In Francia a Quimper, in Repubblica Ceca a Brno e nel New South Wales (Australia) a Illawarra. ISS ha anche avviato un percorso rivolto a studenti-calciatori per l'assegnazione di borse di studio presso università statunitensi.

Nel corso della sua attività decennale sono stati più di 20.000 gli atleti/e che - grazie a stage, eventi, collaborazioni con società e percorsi individuali - hanno potuto giovarsi del metodo ISS. Di questi oltre 300 sono approdati a società professionistiche. Altrettanti sono stati gli istruttori formati tramite i corsi dedicati sopra citati.

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