Lunedì, 23 Dicembre 2024

Marco Capra: “Non mi riconosco in questo calcio che scimmiotta il professionismo. Ora sogno una società tutta mia”

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Marco Capra con i dirigenti del 2007 del Vanchiglia Marco Capra con i dirigenti del 2007 del Vanchiglia

INTERVISTA - L’ex istruttore del Vanchiglia spiega il suo addio alla panchina: “Io sono un amatore del calcio, non un professionista, allenavo per divertimento e passione, ma il mio lavoro è un altro. Nessuna polemica con il Vanchiglia, è un’evoluzione del calcio dilettantistico che non mi piace”. Poi uno sguardo al futuro: “Sogno una società che segua le sacre regole del dilettantismo e metta il divertimento al primo posto”


“Io con il calcio dilettantistico ho chiuso, non allenerò mai più”. Così scriveva in un post su Facebook del 2 ottobre Marco Capra, fresco di divorzio con il Vanchiglia, dove allenava da 12 anni, sempre nella Scuola calcio. Passato qualche giorno, la posizione è più sfumata e si apre a prospettive cariche di futuro. Magari non più su una panchina, ma dietro una scrivania. Ne abbiamo parlato con il diretto interessato.

Marco, partiamo da quel post su Facebook. Uno sfogo a caldo, ma significativo.

“Premetto che non ce l’ho con il Vanchiglia, anzi li ringrazio per tutti gli anni passati insieme, per me il Vanchiglia rimane il bar dove vado a fare l’aperitivo con gli amici. Ma nel calcio dilettantistico sono troppe le cose che non mi piacciono più. Resto riconoscente al calcio perché mi ha insegnato tante cose, ma è un mondo in cui essere troppo buono è un difetto. Sta diventando sempre più professionistico, nel senso che scimmiotta il professionismo. Io faccio calcio per divertimento, per stare con i ragazzi e coltivare una passione. Se deve diventare un secondo lavoro, a me non va più bene”.

Questa evoluzione non riguarda solo il Vanchiglia.

“No, è un discorso generale. Il calcio dilettantistico ormai è sempre più un business e sempre meno un gioco. Io mi trovavo in difficoltà, con troppe partite e troppi tornei da affrontare. Quando ero ragazzo io, facevi una partita alla domenica e andava bene così. Adesso questi bambini si allenano poco e giocano sempre. Una parte importante del mio essere allenatore era quella di dare una forte carica emotiva alla squadra, alla sudamericana, il mio modello è il Cholo Simeone. Ma non puoi fare la guerra, ovviamente guerra sportiva, tutti i giorni…”

Ma le società si evolvono verso una gestione sempre più professionistica per necessità. Prima di tutto, lo chiedono i genitori. Secondo, le società che oggi funzionano sono quelle gestite in modo imprenditoriale.

“Sono d’accordo, ma se una società deve essere un’impresa, deve esserlo dalla A alla Z: deve seguire quelle regole, in primis deve avere dipendenti - allenatori e non solo - preparati e pagati, che seguano un regolamento preciso e vengano licenziati nel momento in cui non lo seguono. Ma così non è più un divertimento, una passione. Diventa un lavoro”.

Il calcio è un lavoro per i professionisti.

“Appunto. Ma attenzione, non facciamo confusione tra professionalità e professionismo. La professionalità è dovuta, per rispetto dei ragazzi e dei loro genitori, che pagano e devono avere un servizio. Io mi ritengo un amatore del calcio, non un professionista: tra i dilettanti, sinceramente, quanti possono dirsi professionisti? Io cerco di essere un professionista nel mio lavoro, ma non metterò mai il calcio davanti al mio lavoro, quello che mi permette di mantenere la mia famiglia. Secondo me, l’istruttore di una società dilettantistica deve essere una persona sana, equilibrata, professionale ma non professionista. E tu società non puoi pretendere troppo da una persona che fa calcio per divertimento. O l’uno, o l’altro”.

Tutto questo, insomma, ti ha portato a smettere di allenare dopo 12 anni.

“È una delle componenti. In realtà non sentivo più quella passione, quel sacro fuoco che deve ardere per fare le cose al meglio. Vedi, sono stato 54 giorni chiuso in casa con il Coronavirus, un’esperienza molto difficile a livello personale. E l’interruzione della stagione con i 2007, che aveva tutti i presupposti per essere fantastica, mi ha tolto gli stimoli da un lato, e mi ha fatto molto riflettere dall’altra”.

È un addio al calcio?

“No, perché il mio sogno nel calcio è sempre stato un altro: vorrei fondare o rilevare una società. Ho un gruppo di amici che fanno calcio da tanti anni, mi piacerebbe coinvolgerli in una società che rispecchi quanto ho raccontato finora e che insegni prima di tutto il divertimento. Il calcio è sport come tutti gli altri, non il mondo degli asini e degli ignoranti come purtroppo spesso appare. Sogno una società che abbassi i toni, che non abbia pretese di professionismo, anzi che segua le sacre regole del dilettantismo: professionalità sì, ma prima di tutto divertimento. Ora mi prendo un periodo di pausa, ma presto mi metterò al lavoro per coronare questo mio sogno e creare una società che faccia non calcio, ma lo sport del calcio”.

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