Mister Sannino, partendo da zero lei ha attraversato tutte le categorie, arrivando fino alla serie A: ci racconti in breve questo percorso esemplare.
Devo dire grazie ai dieci anni di “gavetta” fatta nel calcio giovanile, dove ho potuto sperimentare le mie idee con i giovanissimi, dando un contributo nel loro momento critico di crescita. A chi mi chiede “cosa è il bello del calcio?” rispondo: dare ai ragazzi la possibilità di avere un sogno. E con molti di loro – anche chi è arrivato ad alti livelli – sono ancora in contatto, allievi che magari ho avuto quando ho iniziato la mia carriera di allenatore, 35 anni fa, dopo essermi ritirato dal calcio giocato.
Che consiglio darebbe ai ragazzi che desiderano intraprendere il mestiere di allenatore?
Inizierei dicendo che rispetto al passato è cambiato tutto. Trenta, quaranta anni fa il percorso da seguire, anche se lungo e impegnativo, era noto: bisognava fare sempre e comunque la “gavetta”. Oggi le variabili sono così numerose che pianificare un andamento lineare è impossibile.
Lei ha avuto numerose esperienze all’estero: Inghilterra, Grecia, Ungheria, Libia, Svizzera. Quale di queste le ha lasciato il ricordo più intenso?
Sicuramente l’Inghilterra, per il modo di intendere il calcio, per la serenità – potrei dire – che circonda l’ambiente, pur senza perdere di vista il risultato. Ma anche per la bellezza degli impianti, per la cultura del lavoro, per la voglia di primeggiare senza dimenticare i valori fondanti dello sport. È l’unico paese in cui ho visto fare il “terzo tempo”. Anche nelle sconfitte, a fine partita, ci si ritrova insieme alla squadra avversaria a parlare, mangiare e bere. Un modo e un mondo che a noi sembra lontano anni luce. E ancora, il rito di andare allo stadio portando la famiglia, i bambini, gli anziani. Da sottolineare inoltre l’assenza di malizia, di malafede, nei giocatori: se un calciatore simula l’aver ricevuto un fallo, viene fischiato dai suoi stessi tifosi. E tu che vince o perda, fino all’ultimo secondo giochi la partita, andando all’attacco e cercando di fare gol. Anche l’Ungheria mi ha colpito positivamente: calcisticamente è crescita tantissimo, la nazionale da qualche anno sta facendo bene (grazie anche alla guida di un tecnico italiano), hanno impianti sportivi e training center avveniristici e hanno investito in modo importante nel settore giovanile.
Secondo lei cosa hanno meno i settori giovanili in Italia rispetto ad altri paesi europei?
In serie A i settori giovanili – apparentemente – sono ben strutturati. Tuttavia i risultati non appaiono all’altezza: tranne rarissime eccezioni (penso all’Atalanta e negli ultimi tempi anche alla Juventus) pochi ragazzi della Primavera arrivano in prima squadra. Inoltre pochi tra i nostri giovani calciatori fanno esperienza all’estero. Questo ovviamente si riflette sul campo: i risultati delle squadre italiane nella Young League sembrano confermarlo. E di nuovo ritorniamo al discorso della “cultura” (chiamiamola così) del calcio nel nostro paese: se un giocatore azzecca tre partite di seguito diviene subito un fenomeno; tuttavia se subito dopo ne sbaglia due cade inesorabilmente nell’oblio. Questa variabilità di giudizio ovviamente è nociva: alimenta false aspettative e allontana dall’idea fondante che è “dare solide basi al giocatore”. Così si dimentica che l’esperienza si fa sbagliando e solo dando continuamente la possibilità di agire si impara.
Da anni noi di ISS focalizziamo la didattica sull’errore tecnico del singolo: siamo quindi condizionati nel leggere le partite. Ma un allenatore come lei cosa vede in campo?
Chi privilegia la lettura tecnica (pensiamo ad Allegri) chiede giocatori che siano tecnici. Per quanto mi riguarda, voglio che i miei giocatori esprimano le proprie qualità (tecnica e fantasia: giocate di prima, dribbling, tiro; ma anche saper temporeggiare se è il caso ben sapendo che possono sbagliare (ad esempio perché c’è un comportamento tattico errato da parte dei compagni, di chi si muove senza palla). Io chiedo ai miei giocatori: in zona di campo “1” (il primo terzo dell’area di gioco) un gioco più semplice possibile, partendo dal portiere o dopo un recupero palla; in zona “2” (il secondo terzo di campo) di essere quanto più veloci possibili nel pensare alla giocata; in zona “3” (l’ultimo terzo) che si metta a frutto la creatività del singolo. In questo modo, pur dando una evidente impronta tecnica, lascio ai miei giocatori una grande libertà di esecuzione.
Ma in allenamento, a livello di massima serie, si riesce a lavorare per correggere il gesto tecnico.
Sì, in serie A è ancora importante. Grazie allo staff dei collaboratori tecnici che ho avuto, sono riuscito a operare bene in questo senso, per comparti e a gruppi di due-tre giocatori. Ad esempio, i difensori venivano allenati a colpire di testa; i centrocampisti al modo di ricevere la palla; gli attaccanti allo stop di petto e al calciare, eccetera. Tuttavia a volte il giocatore che è “arrivato” pensa sia solo una perdita di tempo. Bisogna quindi lavorare su questo aspetto: è un problema di “cultura” del singolo e della sua sensibilità nel comprendere che si può sempre migliorare.
Quindi lei come valuta una scuola come la nostra, che opera nella correzione del singolo gesto tecnico ai fini della crescita piena e consapevole del calciatore?
L’aspetto peculiare del vostro insegnamento è l’essere individuale: il giocatore esce così dalla dimensione del collettivo ed entra in una situazione su misura per lui. Tuttavia, come ho detto poc’anzi, un giocatore “esperto” deve avere molta umiltà per rendersi conto del beneficio che ciò gli può dare: io vorrei avere tutti i miei giocatori così, con questa umiltà.
Se magicamente potesse tornare in una città in cui è già stato, dove vorrebbe andare?
Dove non sono ancora andato! A 65 anni ho ancora tanta voglia di mettermi in gioco, di pormi nuovi obiettivi. In questo momento sto allenando una squadra di prima lega elvetica: è composta da semiprofessionisti, ragazzi che hanno una occupazione e che al termine delle otto ore lavorative vengono ad allenarsi. Per me è come se fossi in serie A: le soddisfazioni che ho con ragazzi cos’ motivati, che ascoltano, sono impagabili. Il mio girovagare per il mondo è dovuto alla ricerca continua di questo entusiasmo, potrei dire infantile, nel giocare: è la cosa che più mi rende felice.
LA CARRIERA
Dopo aver allenato le giovanili di Voghera, Pavia, Monza, Como, Giuseppe Sannino approda al professionismo nel 1996, scalando negli anni le varie categorie per arrivare nel 2011 in serie A con il Siena. Fanno seguito le panchine di Palermo, Watford (seconda divisione inglese), Catania, Capri, Salernitana, Triestina, Levadiakos (prima divisione greca), Novara, Honved Budapest (prima divisione ungherese), Al-Ittihad Tripoli (prima divisione libica), Nocerina. Attualmente allena il Paradiso Lugano, che milita nella terza divisione svizzera.