Martedì, 26 Novembre 2024
Remo Carulli

Remo Carulli

Docente di psicologia clinica presso l'universitá IUSTO, Psicologo Psicoterapeuta, Autore Lonely Planet

16ª PUNTATA / COLPI DI TESTA - Secondo editoriale di Remo Carulli (ex giocatore, docente di psicologia clinica presso l'università IUSTO, psicologo psicoterapeuta, autore Lonely Planet e tanto altro) che, dopo aver chiarito cosa può fare lo psicologo dello sport, spiega la tecnica del goal setting - ovvero la programmazione degli obiettivi - applicata al mondo del calcio: step a breve, medio e lungo termine per coniugare fiducia  e motivazione, ma con la difficoltà di misurarli con criteri oggettivi. Attenzione: la tensione acritica verso il risultato è uno dei mali del calcio giovanile ed è diseducativa


Allenare la mente lavorando per obiettivi

Uno degli strumenti più noti, celebrati, branditi nei proclami degli psicologi degli sport è il cosiddetto goal setting, che, dietro il paravento di professionalità assicurato dall’espressione inglese, da un certo punto di vista non è altro che una banalissima programmazione degli obiettivi. Stabilire degli obiettivi, infatti, ha spesso una grande utilità, come avrà verificato chiunque si sia misurato con un qualsiasi compito, nel calcio, nella scuola o in qualsiasi altro contesto, ricorrendo a tale espediente. Per esempio, immaginiamo una persona completamente digiuna di calcio che voglia imparare a palleggiare: fissare un traguardo specifico, piuttosto che esortare se stessi a fare il meglio possibile, favorirà la motivazione, poiché l’ancoraggio a numeri concreti funge da irresistibile stimolo per la mente.

Banale ma non troppo

Ma quale traguardo porsi? La questione è molto più complessa di quanto possa apparire superficialmente. Se la persona in questione stabilisse come obiettivo quello di fare cento palleggi, il rischio di non essere all’altezza di tale compito sarebbe molto alto. In questi casi il risultato per la mente è nefasto: la distanza tra le proprie capacità reali e le aspettative illusorie genera frustrazione, intacca la fiducia nei propri mezzi, inibisce la motivazione. Porre obiettivi molto alti, nella vagheggiata convinzione che ciò solleciti il desiderio di agire, è l’errore in cui incorrono molti sportivi e allenatori. Tuttavia, anche procedere in direzione opposta, scegliendo obiettivi molto modesti, è causa di problemi: se la persona optasse per il raggiungimento della soglia dei due palleggi, la facilità irrisoria di tale traguardo spegnerebbe immediatamente lo slancio che la programmazione degli obiettivi può imprimere alla motivazione. Come procedere allora? La tecnica del goal setting, che la psicologia dello sport ha mutuato dalle riflessioni della psicologia in ambito aziendale, presuppone una scansione di obiettivi a breve, medio e lungo termine, in modo tale che risultati immediati possano incrementare la fiducia nei propri mezzi e quelli più prestigiosi e dilatati nel tempo mantengano la loro valenza motivazionale. In sostanza, una buona programmazione degli obiettivi presupporrebbe qualcosa del genere: due palleggi entro stasera, dieci entro la prossima settimana, venticinque tra un mese.

I problemi supplementari nel calcio

Le difficoltà per un calciatore o un allenatore di calcio (gli obiettivi possono essere individuali o di squadra) non finiscono qui. Tale modello, infatti, presuppone come principio ineludibile la concreta misurabilità degli obiettivi, per potere monitorare le prestazioni e l’andamento del proprio percorso. Il calcio, però, è uno sport refrattario ai dati oggettivi, come dimostra il profluvio di narrazioni discordanti che può scaturire da una stessa gara. A dispetto della salutare abitudine all’analisi di statistiche dettagliate in ogni ambito del gioco, sempre più diffusa, sono infatti pochi i dati oggettivabili senza distorsioni soggettive: anche il numero delle occasioni da gol, sul quale spesso si fonda la valutazione della bontà di una prestazione, è discrezionale. E poi c’è un problema ulteriore: a differenza che in altri sport, dove la performance dipende dal singolo atleta, nel calcio non siamo da soli: con la stessa squadra, indipendentemente dalla bontà del lavoro svolto, si può vincere il campionato o arrivare quinti a seconda della qualità e dalla forza delle avversarie.

Obiettivi sì, ma con cautela

Insomma, il lavoro degli obiettivi può essere molto redditizio, ma richiede flessibilità, sensibilità, capacità di analisi delle diverse situazioni e consapevolezza dei limiti dell’atleta o della squadra coinvolta. Non richiede necessariamente uno psicologo dello sport, ma di sicuro un professionista formato (magari anche come psicoterapeuta, in modo da accogliere i vissuti dell’atleta più in profondità) può risultare molto utile nella supervisione del processo. In generale, credo sia importante sottolineare un aspetto: la programmazione degli obiettivi dovrebbe sempre escludere il risultato, almeno nelle giovanili: la tensione acritica verso il risultato, infatti, è uno dei mali del calcio dilettantistico ed è diseducativa. Ma spesso anche nell’alto professionismo è molto più funzionale porsi obiettivi svincolati dal risultato e che riguardino singoli aspetti della performance.

9ª PUNTATA / COLPI DI TESTA - Psicologo o preparatore mentale? Si può stravolgere l'approccio mentale di un giocatore? Su quali dimensioni si lavora? Nel suo primo editoriale per giocaacalcio.it, Remo Carulli (ex giocatore, docente di psicologia clinica presso l'università IUSTO, psicologo psicoterapeuta, autore Lonely Planet e tanto altro) chiarisce cosa può fare lo psicologo dello sport, una figura che qualche anno fa era guardata con scetticismo ma che oggi è normale vedere al fianco dei campioni più affermati


Quando iniziai a lavorare come psicologo dello sport, una quindicina di anni fa, ricordo che incontrai diverse difficoltà. Certo, ero giovane, e l’inesperienza concorse a farmi percepire come complesse situazioni che oggi derubricherei all’ordinarietà.

Ma non era solo quello.

Intorno alla figura del professionista della mente in ambito sportivo, infatti, aleggiavano diffusamente perplessità e scetticismo. Non erano molti gli atleti di livello che confessassero di ricorrere a un supporto di questo genere, quantomeno nel calcio, e il ricorso a un aiuto psicologico era considerato una debolezza: la retorica della forza, della capacità di non cedere di fronte agli ostacoli, dell’importanza di reagire ad ogni avversità escludevano dall’immaginario collettivo l’appoggio a un professionista della salute mentale. Ebbene, è impressionante la rapidità con cui lo scenario è cambiato: grazie alla testimonianza di grandi giocatori, per esempio Bonucci, la figura dello psicologo sportivo è stata depurata di pregiudizi e credenze, per elevarsi al rango dell’assoluta rispettabilità. Come sempre nei processi troppo frettolosi, però, questo cambiamento improvviso non ha consentito l’elaborazione di una professionalità pienamente riconoscibile e la chiara definizione degli strumenti ad essa riferibili. Ecco un sintetico elenco di equivoci.

Psicologo o preparatore mentale?

Le normative intorno agli interventi professionali sulla mente degli atleti sono piuttosto farraginose e, un po’ per la natura dell’oggetto, un po’ per la carenza di informazioni al riguardo, lo scenario che ne consegue è molto confusionario. Il titolo di “preparatore mentale” e quello di “mental coach” sono fondamentalmente autoreferenziali: non esiste un percorso di studi o un’abilitazione che ne restringa rigorosamente l’applicazione, e chiunque, in sostanza, può definirsi tale a propria discrezione. Alcuni professionisti hanno seguito scuole di coaching, con un taglio esperienziale, che abilitano ad effettuare interventi finalizzati all’incremento delle potenzialità nel qui e ora, e alla gestione di alcuni sintomi. Ci sono poi gli psicologi, con una formazione più solida, e, a un livello di approfondimento ancora superiore, gli psicoterapeuti, che hanno completato un iter che permette la presa in carico dell’atleta tenendo in considerazioni le emozioni legate ai conflitti famigliari, la storia di vita, le dinamiche più profonde e riferibili all’inconscio. Per tutti loro, esistono dei master in psicologia dello sport, ma proprio il fatto di essere rivolti a figure con basi formative diverse limita la portata di tali percorsi, e la profondità degli strumenti e delle tecniche insegnate. In definitiva, prima di rivolgervi a un professionista conviene prendere notizie sulla sua formazione: se il vostro obiettivo è di lavorare sulle componenti mentali più superficiali della performance troverete numerosi individui in grado di fornirvi modelli e stimoli. Se volete affrontare un percorso più articolato, che vada oltre il semplice miglioramento della performance, invece, sarebbe opportuno ridurre il campo della scelta a professionisti con una formazione più rigorosa.

Si può stravolgere l’approccio mentale di un giocatore?

Come la maggior parte di coloro che leggeranno questo articolo, ho sentito mille volte nei campi frasi del tipo “Ah se solo avesse la testa…”, “basterebbe che tu fossi più attento”, “cerca di essere più motivato e diventerai un grande giocatore”. In tutti i casi, il fondamento di simili pensieri è la convinzione che le componenti mentali della performance siano qualcosa di facilmente malleabile. Come se la carenza di attenzione fosse una scelta. Come se bastasse l’impegno per sovvertire i propri limiti. In verità, le cose sono molto più complesse. La diffusione di una sensibilità più aperta alle determinanti mentali della prestazione non ha comportato una più realistica visione delle prospettive di un lavoro mentale: ogni giocatore ha un bagaglio di attitudini mentali, esattamente come dispone di certe competenze tecniche; ci sono atleti più forti mentalmente così come ci giocatori più prestanti fisicamente; non basta andare dallo psicologo per riuscire a cancellare le proprie fragilità e massimizzare le proprie competenze, così come non si diventa dei fuoriclasse apprendendo le sequenze di movimenti per una finta o un dribbling. In definitiva si può migliorare, anche molto, moltissimo, ma sempre rimanendo in contatto con i propri limiti. E, soprattutto, attraverso un lavoro che richiede tempo e costanza, esattamente come qualsiasi altra componente che partecipa alla performance.  

Su quali dimensioni si lavora?

Accorgimenti rapidi nella routine della gara (o del pre-gara) possono produrre dei risultati rapidi nella diminuzione dell’ansia. La motivazione richiede l’individuazione di obiettivi misurabili e raggiungibili. L’attenzione può beneficiare di tecniche di tipo meditativo. L’analisi dei propri pensieri automatici durante la performance, con relativo tentativo di modificazione, può attivare emozioni meno disturbanti. Le dimensioni della mente sono così ampie che qualsiasi fuggevole stato d’animo può essere oggetto di lavoro. Tuttavia, è la profondità del lavoro che fa la differenza: alcune strategie per aggirare le proprie fragilità possono anche rivelarsi efficaci, ma difficilmente si rivelano risolutive; un’autentica ristrutturazione dell’autostima significa esplorare se stessi, e questo richiede tempo, non può avvenire in un mese. Insomma, i principi del duro lavoro e dell’assenza di scorciatoie sono validissima anche per l’allenamento della mente. Se qualcuno vi promette meraviglie immediate, diffidate: nel migliore dei casi, ignora la vertiginosa complessità della psiche.