INTERVISTA - Ex istruttore ISS, segue la parte atletica e motoria delle categorie dall'Under 9 all'Under 15: «C'è tanta attenzione per gli aspetti difensivi e la riconquista del pallone, l'intensità e la fisicità sono molto alte, ma l'aspetto tecnico è visto come l'arma in più, la chiave per fare un ulteriore salto di qualità»
Luca, raccontaci di te.
«Sono nato e cresciuto nella provincia di Trento, ho studiato scienze motorie a Verona e attualmente svolgo il ruolo di allenatore e preparatore atletico nel settore giovanile del FSV Mainz 05, in Germania».
Cosa spinge un giovane a fare le valigie, cambiare nazione, cultura e abitudini e a tuffarsi in una nuova avventura?
«Principalmente la curiosità. Nel corso dell’ultimo anno di università è maturata in me la necessità di fare un'esperienza diversa, che in altre circostanze forse non avrei più fatto, e ho colto al volo la possibilità di studiare all'estero. Da qui la volontà di tuffarmi in un’avventura che mi portasse a contatto stretto con le mie passioni, il calcio e la preparazione atletica».
Al netto del comprensibile entusiasmo che hai provato nel passaggio dall'Italia alla Germania, quali sono state le difficoltà nel trovarti in una differente cultura sportiva?
«La lingua è stata sicuramente un ostacolo importante. L'incapacità iniziale di esprimermi appieno, con facilità e scioltezza, mi ha messo alla prova e portato ad adottare nuove strategie comunicative. L'approccio a un diverso modo di organizzare e pianificare le sedute di allenamento mi ha costretto a rivedere alcuni schemi codificati che avevo imparato in Italia, e ad adattarmi in fretta, anche in maniera positiva».
Quali le differenze più significative che hai riscontrato tra il calcio giovanile italiano e quello tedesco?
«La prima riguarda l'organizzazione: c'è un programma molto strutturato e rigoroso dell'allenamento, con una suddivisione coerente delle competenze e degli incarichi in ogni momento dell'allenamento: cosa fa e cosa corregge il preparatore atletico, l'allenatore in seconda, eccetera. Questo è molto in linea con una cultura dell'ordine e della disciplina tipica dei tedeschi. La suddivisione dei ruoli dà a ogni membro dello staff un suo spazio e una sua responsabilità, permettendo di avere un approccio globale alla seduta. Dal punto di vista calcistico, ho riscontrato una forte attenzione agli aspetti difensivi, che vengono allenati con una forte componente emozionale. Tutta la squadra è coinvolta nella fase di non possesso e le esercitazioni sono orientate a questo aspetto di lavoro collettivo. Il tema della ri-aggressione dopo la perdita del pallone costituisce un momento chiave - la cosiddetta transizione - che, se ben sfruttato, può generare un’interessante situazione offensiva. L'intensità è molto alta, il contatto fisico ricercato, la fisicità e l'atletismo delle qualità che il giocatore deve avere per poter giocare ad alti livelli».
Hai qualche consiglio da proporre per i vivai italiani?
«Non sono così preparato sul tema, per poter dare dei consigli esaustivi. Credo sia fondamentale partire dalle strutture, investire sulle strutture è un fattore imprescindibile per alzare la qualità del prodotto. A questo va aggiunta la necessità di investire sul personale, credendo nella competenza delle diverse figure professionali che ruotano nel mondo del calcio giovanile (allenatori, preparatori, fisioterapisti, psicologi dello sport, eccetera) e tutelandole a livello lavorativo ed economico».
La tecnica individuale trova spazio negli allenamenti di una società come il FSV Mainz 05? In caso positivo, come viene affrontata?
«La tecnica individuale è parte integrante dell'allenamento e costituisce una fetta importante della programmazione annuale. Per ogni categoria di età vengono stabiliti degli obiettivi tecnici da raggiungere e per questo viene dedicato uno spazio pari a circa il 25 % dell'allenamento totale settimanale. Il lavoro sugli obiettivi viene eseguito sia a livello collettivo, analitico e in piccole situazioni, ma anche a livello del singolo. Nell'allenamento individuale, spesso svolto prima dell'allenamento di squadra, il focus si incentra maggiormente sulle lacune del singolo giocatore. Non è inusuale, però, lavorare per migliorare anche qualità già presenti e consolidate, per affinarle maggiormente».
Negli ultimi anni la Nazionale maggiore tedesca ha visto un profondo rinnovamento, dando spazio a giovani di talento dotati di ottima tecnica. Come e avvenuto questo passaggio e quanto è stato difficile attuarlo?
«È un processo in evoluzione da molti anni. La federazione tedesca si è resa conto che una maggiore attenzione su aspetti fisici-atletici non era pensabile. Il livello di intensità si è alzato così tanto negli ultimi dieci anni che un ulteriore step non sarebbe stato più pensabile. L'aspetto tecnico è stato visto come quell'arma in più, quella chiave per fare quell'ulteriore salto di qualità. Infatti, a parità di condizione e prestanza atletica, chi meglio sa gestire gli aspetti tecnici (quindi minimizzare gli errori, soprattutto ad alta velocità di esecuzione) ha più probabilità di aver successo».
Pensi sia possibile nel nostro paese proporre e affrontare un cambiamento così radicale?
«Credo che siamo nel momento storico giusto per pensare di rivedere alcuni processi e capire quali siano gli ingranaggi da riparare, o quali da sostituire completamene. Un cambio radicale non è mai facile, ma una bella opera di revisione è più che necessaria».
Infine, parlaci del tuo futuro: sempre in terra tedesca oppure prevedi un ritorno in patria?
«La Germania mi ha dato la possibilità di fare della mia passione il mio lavoro. Mi trovo bene, ho creato un legame forte con la società, i colleghi e la città. La mia figura professionale è tutelata e valorizzata, e questi sono presupposti che l'Italia al momento non riesce a garantirmi. Il mio obiettivo è comunque quello di tornare in patria prima o poi e aiutare, con l'esperienza maturata, il movimento del nostro paese a crescere».
CHI E' LUCA SALTUARI
Luca Saltuari ha giocato a livello dilettantistico fino all'età di 23 anni, allenando parallelamente la scuola calcio del Lavis (suo paese di nascita, a 12 chilometri da Trento). Nel 2015 ha conseguito la laurea in Scienze motorie all'Università di Verona. A seguito di una borsa di studio Erasmus in Germania, è entrato in contatto con la prima squadra del Fürth (serie B tedesca). Successivamente, è stato chiamato dal Mainz per seguire la parte atletica e motoria delle categorie dall'Under 9 all'Under 15, incarico che ricopre tuttora. Prima di trasferirsi all'estero, Luca è stato un istruttore ISS.
INTERVISTA - Il metodo ISS spiegato nel dettaglio: «Partiamo dalla conoscenza del giocatore e arriviamo fino alle situazioni di gioco. Non promettiamo la Serie A, ma formiamo calciatori completi sotto tutti i punti di vista. Sempre con il sorriso»
«Qualche anno fa abbiamo allenato un ragazzo con disprassia, una condizione che causa difficoltà nelle capacità motorie e nella coordinazione, in buona sostanza faceva fatica a combinare più gesti contemporaneamente. A lui piaceva giocare a calcio, ci aveva contattato la sua psicologa che aveva visionato alcuni nostri video. Noi abbiamo studiato, ci siamo aggiornati per essere all’altezza e per fornirgli un aiuto. Insieme abbiamo fatto un percorso di più di due anni: oggi questo ragazzo gioca in Eccellenza, ha fatto anche il professionista in serie C. Il papà ci ha girato, qualche tempo dopo, una lettera del figlio, Tommaso: gli scriveva che, avendolo affidato a noi, gli aveva ridato la vita. Mamma mia che emozione…»
Vincenzo Friso ha lo sguardo fiero quando racconta questo aneddoto. È una delle tantissime storie, per quanto particolarmente significativa, che hanno caratterizzato i 13 anni dell’Individual Soccer School, il centro di formazione e perfezionamento tecnico calcistico che dirige insieme a Giordano Piras (qui la sua intervista). Oggi la ISS ha 20 sedi in tutta Italia e tre poli oltre i confini nazionali, si avvale di 80 istruttori e allena almeno tremila ragazzi e ragazze ogni anno. «Sono numeri molto importanti, che speravamo un giorno di raggiungere - continua Friso - ma non è questo l’aspetto principiale. Ogni ragazzo è una storia a sé, una sua eccezionalità e come tale la trattiamo. Se ogni nostro allievo non si sentisse unico, non potremmo mai avere questi risultati».
Enzo, raccontaci come funziona il metodo dell’Individual Soccer School.
«Alla base del nostro metodo c’è il rapporto 1 a 1, ovvero un istruttore per un allievo. Rispetto a tutte le altre realtà, individuali e non, ci differenziamo per la scomposizione e per la correzione analitica di ogni singolo gesto tecnico: si va dall’aspetto coordinativo al dominio della palla, alla sensibilità del piede e della caviglia, transitando attraverso tutto ciò che comprende la tecnica di base. Tutto, sempre e comunque, in funzione delle situazioni che gli allievi ritroveranno in partita: non formiamo freestyler, ma giocatori di calcio completi. Alleniamo i nostri piccoli e grandi calciatori e calciatrici affinché acquisiscano alla perfezione quel determinato gesto tecnico da riproporre in gara sotto pressione, in uno stadio colmo di gente, con l’avversario che ti attacca e ti tira la maglia e cerca in tutti i modi di rubarti la palla, su un terreno di gioco sintetico o in erba, eccetera».
Sempre rapportandovi alla singolarità dell’allievo.
«Quello è il punto da cui un istruttore formato ISS parte; noi abbiamo il compito di riconoscere i nostri allievi il meglio possibile, nel minor tempo possibile e sotto tutti i punti di vista: caratteriale, fisico e tecnico, ovviamente, ma anche sociale per esempio. Dobbiamo saper dimostrare tutte le gestualità tecniche e infine dobbiamo saper correggere e trasmettere la correzione all’allievo. Questo aspetto, insieme alla scomposizione del gesto, ci ha permesso di creare un notevole gap tra ISS e tutte le altre scuole di tecnica individuale. Nel percorso di formazione cui devono sottoporsi tutti i nostri istruttori, l’approccio psicologico è fondamentale, perché bisogna trovare la chiave giusta per entrare in contatto con ogni ragazza e ogni ragazzo. Per semplificare, c’è chi ha bisogno di essere gratificato, chi ha bisogno di essere stimolato attraverso un rimbrotto, chi invece ha bisogno semplicemente di leggerezza. Gli psicologi sostengono che un allenamento individuale, non solo di calcio ovviamente, ma di uno sport di cui si è appassionati, aiuta per esempio bambini con il disturbo dell’attenzione, o con balbuzie e altre difficoltà; ne abbiamo avuto numerose prove pratiche in questi anni. Noi comunque insegniamo calcio ed è questo che facciamo sei giorni su sette a settimana e dodici mesi all’anno».
Il lavoro, quindi, parte dallo scouting.
«Esatto, prima di tutto facciamo un attento scouting del ragazzo per valutare le principali lacune su cui intervenire. L’aspetto coordinativo viene prima di tutto: movimento, corsa, postura e gestualità sono fondamentali per la crescita di un bambino che si affaccia al calcio. Immediatamente dopo curiamo la tecnica analitica, il nostro dogma: per l’ISS la tecnica viene prima di tutto. Chiunque frequenti i nostri corsi mette in pratica tutto ciò che apprende dalla dimostrazione dell’istruttore, inizialmente a velocità ridotta; dopo aver ripetuto più e più volte il gesto tecnico e averlo acquisito lo ripeterà a più alta intensità fino a sfiorare o a raggiungere i ritmi che dovrà reggere durante una gara. Dopodiché, magari mesi o anche anni dopo, c’è il grande passaggio, che conoscono in pochi, alla tecnica di ruolo e alla tattica individuale, ovvero tutte quelle esercitazioni tecniche sviluppate individualmente in funzione del ruolo o della zona di campo che il calciatore ricopre nel proprio club di appartenenza».
Spiegaci meglio.
«Oramai la maggior parte degli addetti ai lavori scompone il gesto tecnico per insegnarlo e perfezionarlo, dall’inizio alla fine. Noi invece eseguiamo il percorso inverso, partendo dalla fine, dalla partita, per poi tornare indietro e scomporlo fino all’ultimo elemento, fino a quando non è più scomponibile. Prendiamo il gesto visto fare in partita da un campione nel migliore dei modi e lo scomponiamo fino alla base. È un processo inverso. Sempre con lo stesso concetto, non insegniamo la gestualità fine a sé stessa, ma sempre in funzione di qualcosa che succederà dopo come un passaggio, un dribbling, un tiro o un movimento dì un compagno o di un avversario».
Con una correzione analitica del gesto, dicevi.
«Prima di ogni cosa viene la capacità di dimostrazione del gesto da parte degli istruttori, perché l'esperienza insegna che un ragazzo apprende più velocemente se vede eseguito più volte il gesto correttamente e a sua volta lo ripete innumerevoli volte. Qui subentra la correzione analitica, fino al dettaglio, finché il gesto non è perfetto, con interventi che noi definiamo ‘paranoici’».
Obiettivo finale?
«La nostra ‘conditio sine qua non’ è la capacità di allenarsi intensamente con un bel sorriso stampato in volto. Lavorare con noi, perché di lavoro si tratta, deve essere uno stimolo a migliorarsi e un piacere. L’obiettivo degli allievi deve essere quello di ottenere il massimo da se stessi: noi non promettiamo la Serie A ai nostri ragazzi, ma nemmeno la Serie B o la Lega Pro, questa ormai è una cosa che ci contraddistingue e ci dà credibilità da anni. ISS educa prima di tutto e disciplina, cresce e forma calciatori completi sotto tutti i punti di vista. Dove arriveranno? Non lo so, ma saranno calciatori completi. Poi, fortunatamente, qualcuno che arriva in Serie A c’è…»
INTERVISTA - Cresciuto nel Torino, esploso nel Chisola, il centrocampista classe 2002 gioca da titolare in serie B con la Reggiana, in prestito dalla Fiorentina: «A tutti i ragazzi che desiderano migliorarsi io consiglio i corsi di tecnica individuale: a me sono serviti molto. All’esordio con la Fiorentina ho pensato che i sacrifici miei e della mia famiglia incominciavano ad essere ripagati»
Titolare in serie B con la maglia della Reggiana, dove è arrivato questa estate in prestito dalla Fiorentina, Alessandro Bianco, classe 2002, sta vivendo la stagione della consacrazione in ambito professionistico. Tecnica, senso della posizione e capacità di inserimento ne fanno uno è uno dei centrocampisti più interessanti del panorama italiano, come già capito da Roberto Mancini (uno che di giovani se ne intende) che a fine 2022 lo aveva convocato per lo stage dedicato ai calciatori di interesse nazionale.
Nel suo percorso di formazione, Alessandro Bianco si è allenato con l’Individual Soccer School, la scuola di perfezionamento calcistico diretta da Giordano Piras ed Enzo Friso. Riproponiamo la sua intervista, realizzata per l’ISS Magazine di luglio 2022.
Alessandro, fino a 15 anni hai giocato nelle giovanili del Torino: che cosa ti ha insegnato questa esperienza?
«Sicuramente giocare già da piccolo in una squadra professionistica, dove il livello di competizione è alto, ti fa capire l'importanza di essere sempre “sul pezzo”, perché da un momento all'altro potesti perdere il posto».
Successivamente, il Toro non ti ha confermato: cosa pensi che mancasse in quel momento della tua carriera?
«Non ero strutturato fisicamente: il divario con ragazzi già sviluppati era importante. Io volevo giocare e quell’anno rischiavo di essere impiegato poco».
Hai avuto l’umiltà e la tenacia di ricominciare dal Chisola e con costanza hai continuato a inseguire il tuo sogno arrivando in serie A: cosa consigli a chi pensa che la carriera sia finita a 15/16 anni, se si è esclusi dall'ambito che conta?
«In quel momento volevo solamente divertirmi, perché era una cosa che mi mancava da qualche anno. Avevo già qualche amico nel Chisola e sapevo che nell’ambito dei dilettanti erano i più forti: non ci ho messo tanto a decidere di andare in quella società. Per quanto riguarda la domanda, penso che se un ragazzo ha delle qualità non debba mai mollare, perché presto o tardi, perseverando e con un briciolo di fortuna, si può arrivare ad avere molte soddisfazioni».
Sei stato premiato al Gran Galà del Calcio come miglior giocatore Primavera 2020-21: cosa pensi del poco spazio che i giovani talenti italiani hanno in prima squadra?
«È stato un grandissimo piacere ricevere quel riconoscimento. Penso sia necessario avere più coraggio nell'utilizzare i giovani, anche nel farli sbagliare, come è giusto che sia. Sta a noi dimostrare il nostro valore sul campo».
Quando hai fatto il tuo esordio con la Fiorentina, in Coppa Italia nella partita contro il Cosenza, cosa hai provato al momento di entrare in campo?
«È stata una bellissima emozione, una vera e propria scarica di adrenalina: ho pensato che tutti gli sforzi fatti da me e dalla mia famiglia stavano iniziando ad avere un ritorno positivo».
Hai una tecnica pregevole, questo te lo riconoscono tutti. Per ottenere questo risultato hai lavorato anche a livello individuale. Sulla base della tua esperienza ritieni sia praticabile il perfezionamento tecnico tra i professionisti?
«Assolutamente sì: oggi nei settori giovanili si predilige la tattica alla tecnica. Quindi o sei “naturalmente” dotato, oppure rischi di arrivare al momento decisivo ancora acerbo sotto il profilo tecnico. A tutti i ragazzi che desiderano migliorarsi io consiglio i corsi di tecnica individuale: a me sono serviti molto».
LA CARRIERA
Centrocampista centrale, abile tecnicamente e dotato di un ottimo senso della posizione, bravo nell'impostazione del gioco e negli inserimenti, Alessandro Bianco (torinese classe 2002) gioca nella Reggiana, in serie B, in prestito dalla Fiorentina, che lo ha preso nel 2018 dal Chisola.
Con la viola ha vinto tre edizioni consecutive della Coppa Italia Primavera e una Supercoppa Primavera. Convocato per la prima volta in prima squadra nel febbraio del 2021, ha fatto il suo esordio tra i professionisti il 13 agosto, nell'incontro di Coppa Italia vinto per 4-0 contro il Cosenza. Nella stagione 2022-2023 viene inserito stabilmente in prima squadra. Gioca per la prima volta in Europa, il 6 ottobre 2022 nella gara di Conference League vinta a Edimburgo contro l'Heart of Midlothian, e in serie A, il 4 gennaio 2023, schierato come titolare dall’allenatore Vincenzo Italiano nel pareggio casalingo contro il Monza (1-1); in tutto colleziona 14 presenze, di cui 7 in serie A. In estate, passa in prestito per una stagione alla Reggiana, in serie B, dove sta giocando da titolare.
In nazionale, Bianco vanta una presenza in Under 18 e 5 in Under 20, con cui ha vinto il Torneo 8 Nazioni. A fine 2022 è stato convocato da Roberto Mancini per lo stage dedicato ai calciatori di interesse nazionale, che si è tenuto da martedì 20 a giovedì 22 dicembre a Coverciano.
INTERVISTA - Oltre alla sede centrale del Musiné Sport Village di Pianezza, la ISS ha 20 sedi in tutta Italia e qualche punto all’estero, si avvale di 80 istruttori e allena almeno tremila ragazzi e ragazze ogni anno. Il segreto? «Il nostro metodo di allenamento che ti porta fino alla partita, la correzione analitica del gesto, la voglia costante di crescere e migliorarsi» spiega Piras, che gestisce la scuola insieme a Enzo Friso
Due settimane fa, precisamente il 10 settembre 2023, l’ISS - Individual Soccer School ha festeggiato il suo 13esimo compleanno. «Quando siamo partiti, tutti mi dicevano “tanto non funziona”. E invece siamo ancora qui, abbiamo 20 sedi in Italia e qualche punto all’estero, in cui lavorano più di 80 istruttori e si allenano almeno tremila ragazzi e ragazze all’anno». Numeri impressionanti, che raccontano la crescita della scuola di perfezionamento individuale gestita da Giordano Piras ed Enzo Friso, che ha la sua sede centrale al “Musinè Sport Village” di Pianezza: «Oggi siamo un modello vincente».
Giordano, facciamo un po’ di storia. Raccontaci come è nato l’ISS.
«Ho iniziato a fare allenamenti individuali con Alberto Lampo, Rita Guarino, Patrizio Sala e Teo Coppola, mio amico d’infanzia, in quella che è stata la prima scuola in tutta Italia a insegnare calcio a livello individuale, la IFC. Questo mondo mi ha subito affascinato, per cui ho deciso di aggiornarmi e sono andato in giro per l’Europa per vedere come lavoravano e capire cosa mancava qui in Italia: Real Madrid, Barcellona, Ajax, Porto, sono andato a studiare dai migliori. E ho visto migliaia di video di gesti tecnici, cercando di capire come scomporre, e quindi come insegnare, ogni singolo gesto. Quello che oggi si vede nei video su Instagram e Tik Tok, noi lo facciamo da sempre. Siamo partiti con l’Individual Soccer School 13 anni fa, sul campo di Tetti Neirotti a Rivoli, eravamo io, Dennis Sanseverino e Tatiana Zorri. Enzo Friso è entrato un paio di anni dopo, oggi siamo noi due i responsabili dell’ISS. Da due anni abbiamo aperto anche l’ISS Women, progetto cui crediamo molto e che ci sta dando grandi soddisfazioni».
Dove si trovano le sedi dell’Individual Soccer School?
«Già nel 2011 siamo entrati al “Musinè Sport Village” di Pianezza, questa è la nostra casa, qui nascono e si sviluppano le nuove idee, qui teniamo i corsi per i nostri istruttori, oltre a fare tantissimi allenamenti individuali. Ma ci siamo diffusi in tutta Italia: abbiamo quattro sedi in Lombardia, tre in Veneto di cui una dedicata al femminile, due in Trentino, due in Alto Adige, una in Emilia-Romagna, in Liguria e in Valle d’Aosta, poi due in Sardegna e altre quattro in Sicilia. E poi abbiamo delle sedi all’estero, una fissa in Francia a Quimper, altre itineranti dove andiamo a fare campus che durano un paio di mesi, in Repubblica Ceca e in Australia».
Prossime tappe?
«Le prossime aperture saranno a Roma e negli Stati Uniti, una sede fissa nel Tennessee: ci siamo quasi, ma ne parleremo a tempo debito. E continuiamo, io ed Enzo, ad andare in giro per rimanere aggiornati: i prossimi viaggi in programma sono al Manchester City, al Mainz dove un nostro ex istruttore - Luca Saltuari - è diventato responsabile dell’attività di base, e al Red Bull Salisburgo, loro sono avanti anni luce. La ricerca e la formazione continua sono uno dei nostri segreti».
Diamo i numeri: quanti istruttori, quanti allievi.
«Difficile fare un conto preciso, perché c’è grande turnover. Diciamo che attualmente utilizziamo almeno 80 istruttori tra tutte le nostre sedi, la cosa importante è che sono tutti formati nella nostra scuola. Devono conoscere perfettamente il metodo di lavoro e la filosofia di ISS prima di scendere in campo con i ragazzi. Contare gli allievi è ancora più difficile: nell’arco di una stagione, tra i percorsi stagionali di allenamento, gli stage invernali ed estivi, gli eventi, girano nel mondo ISS almeno tremila bambini e ragazzi. In 13 anni saranno stati 25mila in tutto, visto che all’inizio erano un po’ meno».
Come si spiegano questi numeri clamorosi, qual è la differenza tra la vostra e le altre scuole di allenamento individuale, che ormai sono tantissime?
«Noi insegniamo la gestualità in una progressione che ti porta fino alla partita. Il nostro metodo non è fine a sé stesso, ma ti porta nelle situazioni di gioco. Insegniamo il gesto tecnico in rapporto alle situazioni che si possono creare in partita: se ti attaccano da una parte o dall’altra, se ti tirano la maglia, se ti saltano sopra… Tutti scompongono il gesto tecnico per insegnarlo e perfezionarlo, dall’inizio alla fine. Noi invece partiamo dalla fine, dalla partita. Prendiamo il gesto visto fare in partita e lo scomponiamo fino alla base. Non è facile da spiegare a parole, è molto più chiaro sul campo, ma questa è la base della nostra metodologia. Utilizziamo, come altri, il metodo 1 contro 1, un istruttore per un giocatore, ma ci differenziamo per la correzione analitica del gesto, fino al dettaglio: come toccare la palla, il movimento del corpo, sempre - ripeto - in rapporto alla partita».
La concorrenza in costante aumento vi disturba?
«No, anzi, per noi è un bene: più scuole ci sono, più crescono i nostri numeri. Tutti i ragazzi ormai vogliono fare gli individual e i nostri allievi continuano ad aumentare. Bene così».
In questi 13 anni, com’è cambiato il lavoro dell’Individual Soccer School?
«A livello tecnico ovviamente ci siamo evoluti e continuiamo ad evolverci giorno dopo giorno, quando non saremo più curiosi e non avremo nuove idee, sarà il momento di smettere. La filosofia di fondo, ovvero insegnare calcio, gesto tecnico e tattica, a livello individuale, rimane la stessa, ma perfezioniamo ogni giorno il nostro metodo, che ci permette di ottenere risultati soddisfacenti dentro e fuori dal campo. I cambiamenti più grandi ci sono stati dal punto di vista organizzativo, siamo passati da 3 istruttori e 13 bambini a quello che siamo adesso…»
E come sono cambiati, in questo decennio, i giovani calciatori e i loro genitori?
«I ragazzi, che prima veniva per imparare a giocare a calcio, adesso vengono perché vogliono diventare giocatori professionisti. La media nazionale dice che ce la fa uno ogni 13mila. Da noi la media è un po’ più alta, visto che ne contiamo una ventina sui 3mila di cui parlavamo prima, ma il discorso non cambia: noi garantiamo il miglioramento dei nostri allievi, non certo che diventino professionisti. Migliorare dà sicurezza, autostima, aiuta nei rapporti con i compagni di squadra, fa crescere non solo nel calcio ma nella scuola e nella vita di tutti i giorni. Nei nostri allenamenti il cervello lavora velocemente, devi ricordare un sacco di gesti e di movimenti, devi credere in te stesso. Ma non vendiamo illusioni: tanti ragazzi credono che venendo da noi diventeranno professionisti, ma non è così».
E i genitori?
«Il discorso è simile. Tanti pretendono troppo dai figli, mettono loro una pressione che li condiziona e li spaventa. Comunque, non bisogna mai dimenticare che il calcio è un gioco».
INTERVISTA - Il difensore centrale della Salernitana, cresciuto nell’Inter, racconta il suo periodo di allenamenti con l’Individual Soccer School: “Per un anno intero ho seguito quante più lezioni individuali possibili, fatto determinante per il mio percorso: a un anno di distanza dalla delusione del provino fallito al Como, sono stato contattato dall’Inter”
Quanto hai dovuto impegnarti (non solo in senso sportivo ma anche nella vita privata) da bambino e da adolescente per arrivare al tuo attuale livello di gioco?
“Non si ottengono risultati senza impegno e il mio caso non fa eccezione: soprattutto nel periodo dell'adolescenza risultava evidente come il mio stile di vita fosse molto lontano da quello dei miei coetanei. Ho dovuto fare numerosi sacrifici per inseguire il mio sogno ma non posso assolutamente dire che sia stato un peso: stavo seguendo la mia passione”.
Un suggerimento ai giovani che approdano al professionismo?
“Il consiglio che posso dare è di seguire il mio percorso: da ragazzino giocavo per l'Under 13 del Luciano Manara (Lecco), anche in seguito al lavoro svolto con l'ISS, mi sono ritrovato a disputare il campionato regionale Giovanissimi con l'Inter. Un salto importante: i primi tempi ero un po' titubante, tuttavia la consapevolezza che l'Inter aveva visto in me delle qualità mi ha permesso di lasciarmi alle spalle le insicurezze e giocare senza preoccupazioni”.
Qual è il carico di lavoro che ti permette di affrontare la Serie A e l'Under 21?
“È importante: tra gli impegni di club e gli incontri della Nazionale abbiamo in calendario moltissime partite. Diventa fondamentale gestire gli allenamenti. Fortunatamente siamo affiancati da professionisti in grado di prepararci al meglio per scendere in campo nelle migliori condizioni possibili. Sempre”.
Che cosa ha rappresentato per te l'ISS? Raccontaci in breve il tuo percorso all'interno della scuola.
“Per me l'ISS ha costituito un punto di svolta: sono arrivato in questa realtà nel periodo in cui giocavo per il Luciano Manara ed ero appena stato scartato dal Como. Venivo da questa piccola delusione e avevo voglia di riscattarmi: IISS mi ha permesso, tramite un lavoro molto intenso e personalizzato, di allenarmi ben più delle 2-3 volte a settimana richieste dalla mia squadra; ciò mi ha dato la possibilità di crescere rapidamente. Per un anno intero ho seguito quante più lezioni individuali possibili, fatto determinante per il mio percorso: a un anno di distanza dalla delusione di Como sono stato contattato dall’Inter”.
Hai trovato differenze tra Primavera, serie B e poi serie A?
“Le differenze sono sicuramente molte: l'intensità del gioco e la qualità delle squadre sono i primi aspetti che saltano all'occhio. Quando inizi a muovere i primi passi tra i “grandi”, il cambio dal settore giovanile alla prima squadra è molto impattante: si gioca per i punti. Anche con la squadra Primavera è importante vincere ma quando rappresenti una città, una tifoseria. le pressioni aumentano in modo esponenziale. E tutto questo, a mio avviso, ha un effetto molto positivo per la crescita di un giovane calciatore”.
Cosa si prova nel vestire la maglia azzurra?
“È probabilmente l’obiettivo più ambizioso di ogni calciatore italiano. lo ho avuto la fortuna e la bravura di riuscire a vestirle tutte: dall'Under 15 all'Under 21. Il sogno più grande è evidentemente quello di poter indossare la maglia della Nazionale maggiore e rappresentare così l’Italia intera”.
CARRIERA
Lorenzo Pirola (Carate Brianza, 20 febbraio 2002), difensore centrale di piede mancino, gioca nella Salernitana ed è un punto fermo della Nazionale Under 21 italiana. Cresciuto nelle giovanili dell’Inter, nella stagione 2019/2020 viene aggregato alla prima squadra guidata da Antonio Conte e debutta il 16 luglio 2020, a 18 anni, contro la Spal. Quindi va in prestito al Monza per due stagioni: 16 presenze il primo anno, solo 10 nella seconda, segnata da numerosi problemi fisici. Nella stagione 2022/2023 gioca con la Salenitana, dove colleziona 26 presenze e 2 gol, tanto da meritarsi il riscatto da parte del club campano per 5 milioni di euro. Ha giocato in tutte le nazionali giovanili, in Under 21 già 12 presenze e 2 gol.
INTERVISTA - Torino, Roma e Pinerolo le tappe più importanti della carriera della calciatrice, nota anche per la partecipazione come cantante all'undicesima edizione del programma “Amici” di Maria De Filippi. "La tecnica individuale è legata alla tattica, allo stare in campo. Ritengo che un giocatore possa evolvere solo se è “pensante” ovvero in possesso dei meccanismi cognitivi che permettono di fare la cosa migliore in un preciso momento”
Comincia col raccontarci qualcosa di te...
“Ho iniziato a giocare a pallone da piccola subentrando - per così dire - a mio fratello. Nostro padre è amante del calcio e sperava che mio fratello lo praticasse: tuttavia non aveva grandi qualità anzi, poveretto, piangeva agli allenamenti... Un giorno durante una gara di palleggi vengo notata da Franco Mancuso, mister del Cenisia di Torino, che mi fa entrare nella squadra maschile. Da quel momento ho iniziato a salire di livello nei settori giovanili, sempre maschili. A 14 anni finalmente mi ha chiamato il Torino femminile: lì sono sorte le prime difficoltà dato che ho iniziato a giocare con calciatrici molto più grandi di me.
Tuttavia, ho vinto 3 scudetti Primavera, viatico che mi ha condotto in prima squadra come titolare. Ho giocato così al fianco di Marta Carissimi, Patrizia Panico, Ilaria Pasqui, Tatiana Zorri, Emanuela Tesse, tutte giocatrici top di quel periodo. È arrivata quindi la convocazione in Nazionale (prima Under 15, poi Under 19). Dopo un primo anno di Campionato Europeo seguono una seconda e una prima piazza tra lo stupore generale. Penso di dovere tutto alla esperienza fatta nei sei anni con il Torino, dove ho giocato al fianco di tante calciatrici di alto livello. In seguito, mi sono trasferita alla Roma dove ho fatto tre campionati, vincendo uno scudetto, assieme ad atlete di grande talento come Alessia Tuttino e Ilaria Pasqui".
Parlaci del tuo incontro con Tatiana Zorri, prima come calciatrice e successivamente come tua allenatrice.
“Pur se giovanissima ero appena arrivata in una società di Serie A: da novellina, ti tocca portare i palloni, pulire le scarpe e... andare a sventolare la sciarpa della società all'arrivo all'aeroporto di un nuovo giocatore importante. Così, con tutto lo staff siamo andati ad accogliere Tatiana Zorri. Da come me l'avevano descritta mi aspettavo di vedere una donna possente: invece mi sono trovata di fronte una ragazza minuta minuta. Una volta in campo, era veramente di una categoria superiore. Durante una delle prime partite giocate insieme lei fece un fallo da cartellino rosso, l'arbitro non capendo la dinamica espulse me senza che nessuno prendesse le mie difese. In quel momento capii che lei era Tatiana Zorri, io una ragazzina agli esordi. In ogni caso, Tatiana è sempre stata una calciatrice molto umile, che non ha mai fatto pesare il suo standing: poche chiacchiere e molti fatti. La rosa di quella squadra annoverava anche Patrizia Panico, Ilaria Pasqui, Emanuela Tesse: tutto ciò faceva sì che per me anche gli allenamenti erano una prova da sostenere con il massimo impegno. Il destino ha voluto che Tatiana diventasse la mia allenatrice a Pinerolo: lei ha una gestione del gruppo molto valida e trasmette delle sue competenze con tranquillità. Ha così formato una squadra molto unita, magari non eravamo le più forti ma le più coese: questo ci portava a vincere le partite”.
Tatiana, ti ha fatto entrare nella grande famiglia ISS: perché? E soprattutto cosa ti aspetti?
“Per me la formazione continua è molto importante: ancora oggi quando Tatiana mi allena ritorno a essere la bambina di 15 anni, una spugna che vuole apprendere tutto. Durante i Campionati Europei da me disputati un grande allenatore ha detto che una squadra è il prodotto algebrico tra i singoli: basta che uno dia zero in campo e risultato di tutta la squadra sarà pari a zero. Ho deciso pertanto di intraprendere questo percorso nel vostro centro di formazione per capire fino a che punto si debba lavorare per essere decisiva all'interno di una squadra. Voglio imparare dai più bravi”.
Cosa pensi sia utile per far conoscere questa metodologia di lavoro individuale anche al mondo del calcio femminile?
“Innanzitutto, c'è uno spazio di crescita enorme, tutto da esplorare. Inoltre, vorrei far capire l'importanza della tecnica individuale. Anche per sgombrare il campo dagli equivoci, non basta portare l'attenzione al singolo gesto: la tecnica è legata alla tattica, allo stare in campo, al perché, al dove e al quando. Ritengo che un giocatore possa evolvere solo se è “pensante” ovvero in possesso dei meccanismi cognitivi che permettono di fare la cosa migliore in un preciso momento. Il fatto che io avessi una tecnica superiore alla media mi dava la possibilità di ragionare in campo”.
Che cosa che ti affascina di più in questo percorso?
“Il fatto che voi abbiate guardato e fatto esperienza anche al di fuori dei confini italiani: sono affascinata dai racconti dei percorsi formativi del Real Madrid e del Barcellona. Fino a oggi io ho potuto vedere soltanto come si lavora nel nostro paese: l'idea di collaborare con persone che hanno un orizzonte così ampio significa che potrò nutrirmi di nozioni preziose e differenti rispetto alla norma per formarmi una mia identità competitiva: non si finisce mai di imparare”.
Cosa puoi dire, e dare, a una ragazzina che inizia a giocare a calcio?
“Tanto! Gli posso dire che questo sport ti dà la possibilità di sognare e dare la spinta per nutrire quella voglia, quella determinazione necessaria a raggiungere quei traguardi che da bimba hai solo sognato”.
LA CARRIERA
Pamela Gueli è un attaccante di ruolo: con la Nazionale italiana nel luglio 2008 ha vinto gli Europei Under-19. Nella fase finale della competizione ha giocato quattro partite segnando tre gol, risultando la migliore marcatrice delle azzurrine. L'UEFA l'ha anche annoverata tra le dieci migliori giocatrici del torneo.
Ha giocato nel calcio femminile a 11 fino al 2015, con Torino, Roma, Juventus Torino e Atletico Oristano. Nella stagione 2016/2017 è passata al calcio a 5, giocando in serie A con il Pescara Futsal. Nelle ultime tre stagioni ha giocato nel Pinerolo, squadra piemontese che milita in Serie C femminile.
Al di fuori del calcio, ha acquisito notorietà mediatica con la partecipazione come cantante all'undicesima edizione del programma “Amici” di Maria De Filippi.
INTERVISTA - Il metodo Sfera e il concetto di anti-fragile spiegati dal responsabile dell'area psicologica di Juventus, che ha partecipato a 5 Olimpiadi come spciologo ufficiale del CONI: "L'allenamento individuale è un acceleratore di cambiamento e di apprendimento, in grado di strutturare quella relazione di fiducia che è alla base di tutto".
Buongiorno professore, partiamo dalla base: che cos'è la psicologia dello sport e di cosa si occupa?
"È una branca della psicologia e si rivolge agli atleti, agli addetti ai lavori e a chiunque pratichi sport, agonistico e no, individuale e di squadra. Ha come obiettivo la valorizzazione delle risorse mentali che si mettono in atto nella pratica sportiva".
Lei è l'ideatore del "Metodo Sfera", come è nato e in che cosa consiste?
"Sfera è stato sviluppato nell'Università di Torino, presso l'unità operativa di Psicologia dello sport. Nasce da una precisa domanda: esistono fattori di prestazione comuni a tutti gli sport che possono essere misurati e quindi oggetto di allenamento? Muovendo da ciò abbiamo messo a punto un sistema di osservazione della prestazione basato su cinque fattori fondamentali, da cui l'acronimo "Sfera": sincronia, forza o punti di forza, energia, ritmo, attivazione".
Ci spieghi meglio.
"Con sincronia si intende la piena connessione tra corpo e mente: ciò che io penso viene messo in atto dal mio corpo; potremmo dire che è un sinonimo di concentrazione. Punti di forza sono di tipo fisico, tecnico e mentale, ovvero le capacità di cui il performer, il calciatore o l'individuo, è del tutto consapevole. Quando si è in gara occorre avere la capacità di identificarsi in toto con i propri punti di forza. Energia è la quantità di forza utile per svolgere al meglio un certo compito, nel calcio ad esempio la riuscita di un tiro si basa sull'equilibrio tra poca e troppa energia data alla palla. Ritmo è il fattore della qualità; ad esempio, una squadra per esprimersi al meglio deve muoversi in cui tutti i singoli abbiano il medesimo ritmo. E per gestire questo ritmo - esterno al singolo - si deve essere in grado di controllare il ritmo interno: il battito cardiaco, il ritmo respiratorio, eccetera. Con attivazione si intende il valore aggiunto, la spinta motivazionale che ognuno ha, quel fuoco dentro che permette di superare i limiti, di andare al di là di quella che può essere definita normalità. Avere una buona attivazione significa mettersi in contatto con quella motivazione intrinseca per cui si fanno le cose per il piacere di farle e non per semplice dovere".
Lei e il suo gruppo di ricerca avete messo a punto il costrutto di "antifragilità" nello sport: cosa si intende con questo termine e come mai è così importante nel calcio?
Il termine è stato proposto nel 2013 dal celebre scienziato americano Nassim Nicholas Taleb (noto al grande pubblico per la "Teoria del cigno nero"). L'antifragilità è la capacità dell'essere umano di trasformare in modo sistematico i limiti in opportunità. Questo concetto per molto tempo è stato solo un bellissimo slogan senza applicazione concreta. Tale ha avuto il grande merito di codificare questa capacità dell'essere umano che va ben oltre la cosiddetta resilienza. Mi spiego meglio: il resiliente, quando incontra un ostacolo, lo supera raggiungendo così l'obiettivo. Per l'anti-fragile, invece, il superamento dell'impedimento genera un obiettivo superiore, ovvero usa l'ostacolo come meccanismo propulsivo per la crescita: personale o, nel caso del calcio, della squadra. Io e il mio gruppo di lavoro abbiamo fatto evolvere il concetto di anti-fragilità rispetto alla proposta iniziale di Taleb; abbiamo infatti validato un protocollo - al momento unico al mondo - che oltre a misurare l'anti-fragilità propone una specifica modalità di allenamento di questa capacità".
Torino, Pechino, Vancouver, Londra, Pyongyang: lei ha partecipato direttamente a cinque olimpiadi in qualità di psicologo ufficiale del CONI: che tipo di esperienza è stata e che atmosfera si respira all'interno del Villaggio olimpico?
"È stato un grandissimo privilegio: stare in un Villaggio olimpico durante le Olimpiadi significa avere a disposizione un laboratorio straordinario dove tutti i concetti teorici trovano la loro applicazione pratica e dove si ha la possibilità di osservare e di entrare in contatto con una moltitudine di atleti diversamente non accessibile. Molti dei costrutti e dei concetti che sono stati adottati dalle squadre nazionali e dai singoli atleti derivano proprio dai laboratori olimpici".
Qual è l'importanza attribuita alla psicologia dello sport nelle varie discipline? Come cambia la gestione mentale tra uno sport individuale e uno sport di squadra?
"Di base ogni atleta - indipendentemente dal tipo di sport che pratica - deve conoscere i meccanismi mentali fondamentali per performare al meglio. Tra sport individuale e di squadra, ci sono delle differenze che riguardano il riconoscimento dei fattori di cui abbiamo parlato prima. Faccio un esempio rispetto alla sincronia: nello sport individuale, io posso riconoscere di essere in sincronia quando mi sento totalmente focalizzato su quello che sto facendo; in una squadra, quando questa comunica al suo interno nel modo migliore, tale che tutti siano ben allineati".
Pensiamo allo spogliatoio di un top club: vi sono grandi giocatori ma soprattutto grandi personalità a confronto. Come si gestisce a livello psicologico e motivazionale una tale realtà?
"Lo spogliatoio va considerato come un luogo sacro per i giocatori, un luogo protetto, a porte chiuse, in cui confrontarsi liberamente, e dove di fatto a volte si verifica uno scontro tra leadership, dovute anche alla presenza di etnie diverse. A meno che non venga chiesto un supporto esplicito, il compito dello staff di una squadra è proteggere lo spogliatoio nella sua integrità e sacralità, favorendo l'espressione della autorevolezza individuale dei giocatori di maggiore personalità e che divengono così i leader riconosciuti. Detto questo, il lavoro effettuato con noi dai singoli giocatori fuori dallo spogliatoio è del tutto comparabile a quello svolto negli altri sport dove si lavora sul riconoscimento dei cinque fattori di SFERA. Ad esempio, si lavora sul fattore più debole per renderlo più forte proponendo esercitazioni dedicate di tipo tecnico o atletico".
Affrontiamo ora il rapporto bambini-genitori: come gestire le aspettative di un genitore in rapporto a quelli che sono i reali obiettivi di crescita previsti da un progetto tecnico come quello previsto dal nostro centro di formazione?
"Si tratta di una questione molto importante: ritengo che una realtà formativa come la vostra debba avere anche i compiti di proteggere le qualità del bambino e favorire l'interazione tra genitori e ragazzi nel modo migliore. I genitori devono essere educati per interagire nel migliore dei modi con i propri figli: per aiutarli a realizzare il loro sogno è necessaria una comunicazione efficace. Siamo in un'epoca in cui - per la prima volta - vi sono tre soggetti che devono collaborare di comune accordo: genitori, figli e allenatore, là dove in passato il rapporto era allenatore/atleta e genitori/atleti. Queste tre entità devono relazionarsi con l'obiettivo di crescita armonica dei figli".
Nel nostro centro di formazione, uno dei feedback più ricorrenti che riceviamo al termine della lezioni è "mi sento più sicuro". Quanto ritiene possa essere importante un lavoro individuale per consolidare la sicurezza nei propri mezzi?
"È fondamentale. E per un motivo molto semplice: per essere allenabile un calciatore (come un qualsiasi atleta) deve avere volontà e capacità di apprendere: in loro assenza diventa non-allenabile. Ne consegue che il lavoro individuale è fondamentale: permette di potenziare l'apprendimento, aspetto questo che negli allenamenti collettivi non può essere bilanciato, tale per cui qualcuno potrà apprendere le cose in modo più consistente, qualcun altro meno. Per questo motivo ritengo importantissimo l'allenamento individuale. lo considero un acceleratore di cambiamento e di apprendimento, in grado di strutturare quella relazione di fiducia che è alla base di tutto".
Il metodo ISS si basa sul rapporto "one to one" tra istruttore e allievo. Quanto sono importanti per il primo, le capacità comunicative e l'utilizzo corretto dei feedback?
"Sono imprescindibili. L'istruttore ha un potere immenso che gli deriva dalla capacità comunicativa; immenso in positivo ma anche in negativo: può distruggere una carriera se usata nel modo scorretto. L'utilizzo del feedback di per sé è potenziante: se letto nell'ottica della prestazione presenta punti di forza sull'autoefficacia; se ben utilizzato è in grado di generare la piena fiducia dell'atleta nei confronti del suo allenatore, di aumentare la consapevolezza e soprattutto potenziare l'apprendimento. Feedback è davvero un concetto chiave e bisogna saperlo utilizzare al meglio: grazie alla ricezione dei giusti feedback il ragazzo/atleta impara a parlare a sé stesso: quindi a usare un auto-dialogo auto-potenziante in grado di farlo lavorare in piena autonomia nel suo futuro, non solo nello sport del calcio ma in qualsiasi ambito lavorativo".
CHI E' IL PROFESSOR GIUSEPPE VERCELLI
Il professor Giuseppe Vercelli è psicologo e psicoterapeuta, docente di Psicologia dello sport e della prestazione umana presso l'Università degli Studi di Torino. Ha insegnato presso l'Università Bocconi di Milano e presso la Facoltà di economia dell'Università di Torino. È autore di pubblicazioni scientifiche e divulgative tra le quali i saggi "Vincere con la mente", "L'intelligenza agonistica" e recentemente "Antifragili".
È responsabile dell'area psicologica di Juventus F.C e dell'area psicologica delle Federazioni FISI, FICK e FIPAV. Ha partecipato alle Olimpiadi di Torino, Pechino, Vancouver, Londra e Pycongchang come psicologo ufficiale del CONI. Dirige il Centro di psicologia dello sport e della prestazione umana "Umbro Marcaccioli" presso l'ISEF di Torino ed è responsabile dell'area psicologica del centro clinico J Medical di Juventus F.C.
Con il suo team ha sviluppato e divulgato il modello SFERA per l'ottimizzazione della prestazione e l'AFO (anti-fragile questionnaire).
INTERVISTA - L’ex attaccante oggi è allenatrice: “Il metodo ISS dà a ogni atleta una maggiore padronanza dell'attrezzo in tutte le situazioni, ciò si traduce in una maggiore consapevolezza in campo, saper affrontare le varie fasi di gioco nel migliore dei modi con una conoscenza tecnica che permette di padroneggiare spazio e tempo sul rettangolo verde”.
Ciao Melania, partiamo dal presente: dopo una vita passata sui campi da calcio, cosa fa la Melania di oggi?
“Dopo aver lasciato il calcio giocato ho intrapreso la strada da allenatrice, mi sono dedicata per diversi anni al settore giovanile; lavorare sulla crescita delle piccole mi ha arricchita molto. Poi ho deciso di provare a lavorare con ragazze più grandi: ad oggi alleno la primavera femminile, il lavoro è totalmente diverso rispetto a quello del settore giovanile, ma assolutamente gratificante”.
Hai giocato tantissime partite ad alto livello, ce n'è una a cui sei particolarmente affezionata? Perché?
“Le partite sono state tante, sia con il club che con la nazionale, ma quella a cui sono affezionata particolarmente, sia a livello emozionale che di campo è sicuramente la semifinale di Champions con il Verona. Perché? Bastava semplicemente uscire dal tunnel per arrivare sul campo e vedere uno stadio pieno di gente, ai tempi non eravamo sicuramente abituate a palcoscenici del genere… e poi perché una semifinale era un traguardo davvero difficile da raggiungere, ma un grande gruppo e la determinazione lungo tutto il cammino sono stati gli ingredienti che ci hanno permesso di vivere quella notte indimenticabile”.
Una vita da attaccante: come è cambiata l'interpretazione del ruolo negli ultimi anni di calcio femminile? Quali differenze o analogie vedi tra te e le attaccanti di oggi?
“Credo che l'attaccante di oggi abbia modificato più che cambiato i propri compiti e movimenti, nel senso che oggi cambiano i sistemi e i principi di gioco e di conseguenza anche il ruolo dell'attaccante è diverso rispetto a qualche anno fa: attaccante non è più solo quello che realizza, ma è un giocatore in grado di fornire presenza fisica, tecnica e gioco per la squadra”.
Che differenza trovi tra il calcio femminile italiano e quello europeo o mondiale? Il gap che li separa è ancora così ampio?
“Penso che la differenza tra il nostro calcio e quello europeo stia proprio nella base. C'è una cultura che va cambiata, bisogna mettere le giocatrici nelle condizioni di poter giocare ad alti livelli con le strutture giuste, con il lavoro, la mentalità che serve, l'attenzione, i media, gli sponsor… Sono tutti aspetti legati tra di loro che limitano la crescita di questo movimento. È chiaro che poi il risultato sul campo è diverso, i ritmi sono diversi, il gesto tecnico è diverso. Anche se la perseveranza (una delle migliori caratteristiche che noi donne abbiamo) non ci manca, serve tanto altro. Certo è che col passaggio al professionismo qualcosa è cambiato, ma bisogna dare ancora più possibilità di crescita”.
Al giorno d'oggi si fa fatica ad associare il termine "successo" a valori come il sacrificio e la fatica; la realizzazione professionale viene intesa come un dono piovuto dal cielo. Raccontaci come hai raggiunto i tuoi traguardi, la tua figura può essere considerata come fonte ispirazione per tante giovani calciatrici: quale consiglio ti senti di dare?
“Questo è un argomento che a mio parere deve essere trattato con assoluta importanza. È necessario far capire ai giovani che qualsiasi obiettivo (sportivo e non) deve essere raggiunto con i propri mezzi, con tutte le difficoltà del caso, non con la mediazione di altri o attraverso strade apparentemente meno tortuose. Ho ottenuto qualsiasi cosa attraverso il sacrificio, spesso ho fatto delle rinunce e ci sono state difficoltà lungo la strada. Ho dovuto organizzarmi tra calcio e scuola con orari a volte assurdi, ma era semplicemente quello che volevo e rifarei tutto senza ombra di dubbio. Nulla si ottiene per caso, niente ci viene regalato: bisogna volerlo, crederci e lavorarci, ogni giorno. Il consiglio che posso dare alle giovani è di avere coraggio e forza per raggiungere i propri obiettivi”.
Hai sperimentato il metodo ISS e fai parte del progetto ISS women: cosa ti ha convinto a credere nel nostro lavoro?
“Non c'è stata nessuna opera di convincimento. È bastato vedere il lavoro sul campo: un metodo di lavoro importante, intenso, dettagliato. Credere nella crescita e nel miglioramento continuo di ogni giocatore o giocatrice, questo per me è importante”.
Hai avuto una grande carriera, pensi che l'esistenza di un centro di formazione come il nostro in tempi non sospetti avrebbe potuto giovare alla tua crescita? Quale può essere il contributo di ISS al movimento calcistico femminile?
“Assolutamente sì, credo che un lavoro personalizzato secondo il metodo ISS, a suo tempo, mi avrebbe messa nelle migliori condizioni in diverse dinamiche di gioco. Il contribuito che possiamo dare a ogni atleta è una maggiore padronanza dell'attrezzo in tutte le situazioni, ciò si traduce in una maggiore consapevolezza in campo, saper affrontare le varie fasi di gioco nel migliore dei modi con una conoscenza tecnica che permette di padroneggiare spazio e tempo sul rettangolo verde.
Per la prima volta nella storia il calcio femminile italiano si affaccia al professionismo, ma sono figure come la tua che hanno contribuito a dare lustro al movimento prima di raggiungere questo status. Cosa hai provato una volta appresa la notizia?
“Diciamo che abbiamo dovuto lottare molto più del dovuto per ottenere il minimo che ci spettasse..sono orgogliosa di avere fatto parte di questo lungo e difficile percorso che ci ha condotto a nobilitare una "professione" a tutti gli effetti che incredibilmente non veniva riconosciuta come tale. Sono contenta del risultato raggiunto: un traguardo importante per le atlete di oggi e per le generazioni future, ma non deve essere la fine”.
Qual è la giocatrice che più ti ha impressionato nell'arco della tua carriera? E la calciatrice più forte del momento?
“Ci sono state diverse compagne che mi hanno impressionato, ma se devo fare due nomi dico Chiara Gazzoli e Patrizia Panico. Figure importanti che da giovane mi hanno ispirato. Condividere il campo con loro mi ha permesso di crescere come giocatrice rubando ogni giorno un po' della loro preziosa esperienza. Tra quelle che ho affrontato dico senza dubbio Marta e Lotta Schelin: semplicemente di un'altra categoria. Oggi invece non credo ci sia una sola giocatrice, ci sono tante giovani italiane e non che stanno facendo molto bene. Il futuro del calcio femminile è in ottime mani, o meglio in ottimi piedi”.
Quali differenze trovi tra l'allenamento individuale e quello di gruppo? Hai portato parte del nostro metodo nelle sedute di allenamento della tua squadra?
“Nell'allenamento individuale si lavora molto nel dettaglio e ancora di più sulla correzione. Naturalmente anche nel lavoro di gruppo ci sono queste due componenti, sta all'istruttore o istruttrice avere la capacità di riportarle durante la seduta, magari anche attraverso esercitazioni situazionali. Ricordiamoci che ogni situazione di gioco è un insieme di gesti tecnici che all'interno di essa possono e devono essere migliorati. Ho portato parte del nostro metodo negli allenamenti della mia squadra e i risultati si sono visti. Naturalmente è servito un periodo di adattamento per tutte le atlete che non erano abituate a lavorare molto dal punto di vista tecnico, ma ora a distanza di tempo i risultati sono evidenti”.
LA CARRIERA
Melania Gabbiadini (Calcinate, 28 agosto 1983) è un'ex calciatrice italiana, di ruolo attaccante, sorella maggiore di Manolo, giocatore della Sampdoria.
Con l'AGSM Verona ha vinto il campionato italiano per cinque volte, delle quali tre consecutive (2004-05, 2006-07, 2007-08, 2008-09, 2014-15), due Coppe Italia (2005-06, 2006-07) e tre Supercoppe italiane (2005, 2007, 2008). Nel campionato italiano ha segnato 233 reti in 276 presenze. Ha fatto parte della rosa della nazionale italiana in quattro edizioni del campionato europeo (Inghilterra 2005, Finlandia 2009, Svezia 2013, Paesi Bassi 2017), vestendo la maglia azzurra della nazionale in 121 incontri e realizzando 51 reti.
A livello personale è stata nominata calciatrice dell'anno AIC per quattro anni consecutivi dal 2012 al 2015, corrispondenti alle prime quattro edizioni del premio. Nel 2016 è stata inserita nella Hall of Fame del calcio italiano, categoria "calciatrice italiana". È stata premiata col Pallone Azzurro nel 2016 come miglior calciatrice italiana.
INTERVISTA - Il campione più titolato nella storia del karatè (il cui figlio gioca nella Spal) si racconta: “Credo fortemente che far crescere i singoli porti l'intera squadra a essere migliore. In questo senso ho sempre pensato che il lavoro fatto con l'ISS sia stato fondamentale per la crescita e la riuscita calcistica di mio figlio”
7 volte campione del mondo, 22 titoli europei di cui 13 individuali consecutivi, 20 volte campione italiano (nessuno nella storia del karatè ha vinto più di te) attualmente direttore tecnico nazionale della FIJLKAM - Federazione Italiana Judo Lotta Karatè Arti Marziali. Qual è stata la tua “ricetta” per ottenere questa straordinaria continuità di risultati?
“Non esiste la ricetta magica. È fondamentale l'allenamento: quando svolgevo attività agonistica effettuavo anche undici sessioni di training a settimana, fermandomi solo al sabato pomeriggio e alla domenica. L'allenamento è la base del successo. Ovviamente la qualità, oltre alla quantità, è fondamentale. E bisogna anche essere fortunati e avere un maestro che ti segue costantemente - per me lo è stato mio padre - e che analizza ogni singolo movimento durante l'allenamento, proprio come in una lezione individuale. C'è anche una componente motivazionale. Non nego che il mio desiderio sia stato quello di essere ricordato dagli altri atleti del mio sport quanto più a lungo possibile. Pensando che molti campioni del passato sono stati dimenticati in breve tempo, mi sono imposto di restare al top il più a lungo in modo da avere contatti con quanta più gente possibile. Può suonare strano, ma questa è stata una delle motivazioni che mi ha spinto a fare bene anche dopo aver vinto tutto”.
Hai fondato la Valdesi Karate Academy (www.lucavaldesi.com) il cui credo è il raggiungimento, attraverso la continua pratica, dello “stile perfetto”, ricercato con un sapiente mix di innovazione (la scienza applicata al movimento) e tradizione. Raccontaci come riesci a fondere magistralmente questi due piani.
“Hai riassunto perfettamente. L'idea è di coniugare la tradizione dell'arte marziale agli studi di biomeccanica e del singolo gesto. All'inizio non è stato facile perché il mondo del karatè è piuttosto conservatore e appariva blasfemo (o quasi) portare innovazione all'interno di una pratica che è considerata una sorta di religione. Tuttavia, a fronte dell'evidenza - della applicazione degli studi sulle leve e sulla forza al gesto tecnico (che non dimentichiamo ha sempre un significato: è espressione di un gesto di combattimento con parate, attacchi, proiezioni) - del fatto che l'efficacia migliorava e diminuiva lo sforzo (e quindi sul piano delle energie spese si poteva dare e fare di più) ecco che è stato accettato questo 'nuovo' metodo; a tal punto che oggi a livello agonistico è il più adottato nel mondo. Nello specifico siamo partiti dalla fisica elementare; dato che al karateka interessa sviluppare una elevata potenza abbiamo fatto ricorso alla semplice formula per cui la potenza è uguale alla forza per la velocità (P = F x V). All'epoca tutti lavoravano sulla forza e la velocità era un argomento difficile da affrontare. I movimenti del karatè sono molto complessi, in cui la 'regolazione fine' è molto importante: se non si sviluppano specifiche capacità cognitive e nello stesso tempo non si eliminano i blocchi, i freni meccanici dati dalle contrazioni errate dei muscoli antagonisti ecco che la potenza subisce un calo importante. L'applicazione di un metodo scientifico ha portato a capire quando attivare determinati muscoli all'interno di una catena cinetica che persegue l'obiettivo di colpire l'avversario. Come ho detto, non è stato facile apportare modifiche alla gestualità. Ad esempio, per anni c'è stata una vera e propria diatriba con i più tradizionalisti sul movimento dei piedi, ovvero, se la rotazione dovesse essere fatta sull'avampiede o sul tallone: alla fine, tuttavia, il risultato fu così evidente che la nostra innovazione è stata accettata da tutti”.
Come spiegheresti, in breve, a un neofita che cos'è lo “stile perfetto”?
“La perfezione è una idea. Teoricamente, quindi, si tende alla perfezione senza arrivarci mai: è un lavoro continuo di ricerca e di allenamento per migliorare i propri limiti. Stile perfetto significa riuscire a fare tutti i movimenti al massimo dell'efficacia con la maggiore energia possibile, senza alcuna sbavatura tecnica. Potremmo dire che si tratti di un concetto ideale. È chiaro che un allenamento corretto permette di avvicinarci quanto più possibile a questa idea”.
Nel tuo libro biografico (Karate icon. Io sono Luca Valdesi, Ultra Edizioni) viene descritto il percorso - netto e lineare - che ti ha portato a diventare una icona, un personaggio-mito nel mondo del karatè, ma allo stesso tempo a coltivare il tuo essere autentico come persona, marito, padre. Cosa consigli ai giovani talenti - esposti alle lusinghe del mondo del calcio - per mantenere la propria autenticità?
“Di restare con i piedi per terra. Dobbiamo ricordare che a parte i fuoriclasse, tutti gli altri affrontano gli stessi sacrifici per arrivare a vincere una gara (anche se non sempre si riesce). Per quanto mi riguarda avendo praticato uno sport individuale - il mio impegno è stato uguale a quello di tutti i miei avversari. Questo porta ad avere un grande rispetto verso gli altri e ti fa comprendere che hai avuto fortuna, che hai capito meglio la metodologia di allenamento, che hai un talento differente, che hai la possibilità di dedicare più tempo perché fai parte di un gruppo sportivo e riesci ad allenarti senza avere altri pensieri. Ne consegue una grande concretezza e umiltà. Mi permetto di dare questo consiglio a tutti gli sportivi, sia a quelli che si avvicinano al mondo del professionismo, sia a chi si è già affermato. Il basso 'profilo' è alla base: in fin dei conti facciamo un lavoro che ci piace, che permette di esprimere noi stessi al meglio e che dobbiamo continuare al massimo delle nostre possibilità. Tuttavia, mi rendo conto che quando subentrano i soldi (tanti soldi) per un ragazzino non sia facile riuscire a gestire uno stile di vita così diverso dal precedente. In questo senso assume un ruolo fondamentale la famiglia, che ti permette di restare con i piedi per terra, di continuare il tuo stile di vita, di ricordarti che non sei un superuomo perché guadagni cifre astronomiche, ma che sei soltanto un atleta che deve fare bene il proprio lavoro. Questa è la mentalità che si deve avere. E poi si deve essere sempre a disposizione di tutti, perché il mondo dello sport è come una ruota che gira molto velocemente. Penso che la famiglia sia ancora più importante nel mondo del calcio, perché i ragazzini di talento vanno via di casa molto presto. Porto l'esempio di mio figlio che a dodici anni si è trasferito a Palermo dai nonni per continuare a giocare in una squadra competitiva: è riuscito a farlo grazie a ciò che gli abbiamo trasmesso fin da bambino. Quando lasci la famiglia e sei un adolescente devi avere alcune certezze consolidate sul piano dei valori. Non è facile, ma bisogna dedicare tanto, tanto tempo ai propri figli”.
Nella tua Academy come si comportano i genitori dei piccoli karateka?
“Nel mondo del karatè il maestro è visto come una figura molto carismatica: ha una responsabilità enorme perché spesso i genitori si basano sulle parole del Maestro per orientare la crescita del proprio figliolo. Per il calcio è diverso, lo sappiamo tutti: in Italia ci sono sessanta milioni di commissari tecnici. Il karatè invece costituisce una nicchia sportiva. Quando il maestro dice una cosa, il genitore - anche se non ne capisce il senso - vi si affida totalmente. Ovviamente questo dà onere ancora più grande al maestro che deve non solo essere preparato, ma in grado di interagire con dei ragazzi”.
Tu hai un figlio che gioca a calcio nella Spal, hai una esperienza da genitore di questo sport: pensi che karatè e calcio possano avere qualche tratto in comune? E cosa manca al calcio?
“Penso che ci siano tanti caratteri in comune. Più mio figlio è andato avanti nel suo percorso di calciatore più mi sono reso conto di come alcuni aspetti fondamentali del modo del karate come la propriocezione (n.d.r. dal latino proprius, appartenere a se stesso - è il senso di posizione e di movimento degli arti e del corpo), l'equilibrio, la stabilità, possiamo ritrovarli nel calcio, anche se a volte è proprio ciò che manca in questo sport. Inoltre, ritengo che debba migliorare sotto il profilo atletico, della mobilità, dell'equilibrio. Spesso i calciatori - anche quelli più bravi - mostrano dei deficit propriocettivi, e di scarsa mobilità che si possono poi tradurre in infortuni. Non so perché, ma nel calcio lo stretching è considerato in modo negativo o trascurato in quanto si pensa che si possa ridurre la potenza massima del gesto. Invece va inteso come un lavoro di recupero, post allenamento. La differenza tra calcio e arti marziali riguarda la valorizzazione dell'individuo: mi rendo conto che il primo in quanto sport di squadra debba puntare al risultato del collettivo. Tuttavia, credo fortemente che far crescere i singoli porti l'intera squadra a essere migliore. In questo senso ho sempre pensato che il lavoro fatto con l'ISS sia stato fondamentale per la crescita e la riuscita calcistica di mio figlio”.
Stile perfetto e calcio: pensi che questo connubio sia possibile?
“Come ho detto poc'anzi, credo che anche nello sport di squadra sia necessario tendere alla perfezione individuale. Abbiamo esempi macro: pensiamo a Cristiano Ronaldo che cura l'alimentazione, le ore di sonno, il recupero, che ha un fisioterapista personale, che si impegna in allenamenti oltre a quelli effettuati con la sua squadra; è la meticolosità e la attenzione a se stesso che portano a divenire atleta perfetto. È chiaro che stiamo parlando sempre di tendere a un obiettivo che si sposta sempre in avanti. Lo ripeto: quello che forse manca in Italia è l'attenzione al singolo calciatore, il comprendere quali siano le sue esigenze psicologiche, tecniche, fisiche. Alcune squadre hanno iniziato a farlo: in ogni caso c'è molto da migliorare”.
LA CARRIERA
Luca Valdesi è nato a Messina nel 1976: rappresenta l'icona del karatè italiano e mondiale. Nessuno nella storia della disciplina ha vinto più di lui. In vent'anni di attività agonistica (si è ritirato nel 2014) ha conquistato 7 titoli di campione del mondo, 22 di campione europeo (di cui 13 consecutivi) e 20 di campione italiano. Attualmente ricopre il ruolo di direttore tecnico nazionale della FIJLKAM - Federazione Italiana Judo Lotta Karatè Arti Marziali.
INTERVISTA - La consulente nutrizionale dell’Individual Soccer School: “La chiave del successo sportivo è trovare l'equilibrio perfetto, perché anche il troppo, come il poco, non va bene e riduce la nostra prestazione. Anche l’idratazione è fondamentale, meglio l’acqua degli integratori”
Dottoressa, ci scusi la domanda banale: potrebbe illustrarci i benefici di una corretta alimentazione?
“Una corretta alimentazione, associata all'esercizio fisico, non solo promuove la salute generale, ma consente di soddisfare i bisogni energetici e nutrizionali degli sportivi, sia amatoriali che professionisti, permettendo, quando adeguatamente adattata alle specifiche necessità dell'atleta, di migliorarne il rendimento agonistico”.
Il filosofo Ippocrate diceva: “Se fossimo in grado di fornire a ciascuno la giusta dose di nutrimento ed esercizio fisico, né in difetto né in eccesso, avremmo trovato la strada per la salute”.
“Ad oggi non ci sono più dubbi: la scienza, infatti, ha ampiamente dimostrato che seguire una dieta sana e svolgere un’attività fisica moderata è fondamentale per prevenire l'insorgenza delle patologie croniche (malattie oncologiche, cardiovascolari, diabete di tipo 2, osteoporosi, patologie neurodegenerative) responsabili di più del 70% di tutti i decessi nel mondo. in particolare, l'attività fisica favorisce il mantenimento di un corretto peso corporeo, riducendo l'insorgenza di sovrappeso e obesità, noti fattori di rischio per lo sviluppo di queste patologie: un problema che si riscontra non più solo negli adulti ma anche nei giovani. In questo senso, mi sembra utile proporre una metafora: il nostro corpo, il fisico dell'atleta e dello sportivo, a tutti i livelli, è come una macchina da corsa. Il progetto può essere perfetto (come è in effetti, quello del corpo umano), ma per arrivare primi al traguardo non basta.
Questo è in pratica quello che vi garantisce una sana e corretta alimentazione: il massimo rendimento, il 100% del vostro potenziale espresso in gara ed in allenamento e soprattutto - ci tengo particolarmente a sottolinearlo - una condizione sempre perfetta che previene infortuni e garantisce continuità e costanza nella preparazione, negli allenamenti e nelle gare. Nutrirsi bene significa mantenere l'equilibrio naturale del nostro corpo e sfruttarne tutte le eccezionali capacità costantemente nel tempo. La nostra “macchina da corsa” può avere un motore fantastico, ma se la meccanica è fragile o sotto-dimensionata, in gara si romperà”.
Più nello specifico, cosa consiglia a chi fa attività sportiva?
“L’alimentazione sportiva non è imbottirsi di proteine, integratori o supplementi. La chiave del successo sportivo è trovare l'equilibrio perfetto, perché anche il troppo, come il poco, non va bene e riduce la nostra prestazione. Non serve aumentare le dosi di un nutriente se al vostro corpo non serve, anzi, siccome in ogni caso lo dovrà assorbire, gli stiamo facendo fare un lavoro inutile e quindi sprecare energia. Ovviamente, oltre all'importanza della scelta del cibo, esiste un altro pilastro imprescindibile che fa in modo che tutti gi organi funzionino a dovere e rendano al massimo: l'acqua, la corretta e adeguata idratazione. Imparare a bere è fondamentale perché noi non possiamo fare scorta di acqua, il suo eccesso viene eliminato ma se ne introduciamo troppo poca subentra il problema della disidratazione, molto pericolosa per uno sportivo. Anche il fabbisogno di fluidi dipende dal tipo di attività dalla durata dal metabolismo e dal peso di ognuno di noi. La bevanda migliore per lo sportivo è l'acqua, meglio naturale e a temperatura ambiente. Anche qui gli integratori o supplementi vanno personalizzati, soprattutto nella fase di crescita dei ragazzi. Quindi, va sempre posta estrema attenzione all'uso degli integratori: il “fai da te” non è consigliabile”.