Sabato, 23 Novembre 2024

14ª PUNTATA / L'ERBA DEL VICINO - Dopo il Qatar e la Norvegia, il viaggio intorno al mondo di Mattia Pintus ci porta in Africa, sul Golfo di Guinea. “La narrativa sulla Sierra Leone racconta di bambini soldato. Ho pensato che attraverso il linguaggio del calcio e il potere del calcio, avrei potuto cambiare quella narrativa” racconta Isha Johansen, prima donna in assoluto a diventare presidente di una federazione calcistica, personaggio controverso, sempre in bilico miracolo e mistificazione


Siamo nel 1822, affacciati sul golfo di Guinea. La American Colonization Society, organizzazione privata statunitense, non ha dubbi: la lingua di terra più esposta sull'Atlantico e che fa da confine al golfo, sarà la terra promessa. Per chi? Per gli ex schiavi africani che, liberati, compiranno il viaggio opposto a quello che - in catene - li ha portati ad essere la risorsa più preziosa per l'economia USA. Schiavi, appunto, deportati e poi rispediti al mittente, con la speranza, o meglio, la promessa, di rifarsi una vita nella terra natia. Quel pezzo di terra, da allora e ancora oggi, si chiama Liberia. Un progetto figlio del primissimo imperialismo americano e che, duecento anni e due guerre civili dopo, perdura, guidato da un presidente molto famoso nel nostro paese, non certo per questioni politiche: George Weah. La Liberia però, non è l'unico stato africano nato con i migliori auspici di dare asilo a chi, per costrizione, non ha più né nome né patria. Proprio lì accanto, al confine occidentale, la Liberia cede il passo alla Sierra Leone. Anche questo paese, qualche anno prima, è stato fondato dagli inglesi con intenzioni simili: si chiama infatti Freetown il primo insediamento che gli inglesi costruiscono, proprio lì, dove la stessa città diventerà capitale del nuovo stato.

Siamo a gennaio e, per chi segue il calcio, gennaio è sinonimo anche di Coppa d'Africa. La Sierra Leone, quest'anno, è riuscita a strappare la sua prima e storica partecipazione alla competizione più pittoresca dedicata alle nazionali che la Fifa propone. Un traguardo significativo, se non altro per le vicissitudini che hanno afflitto il paese: anche in Sierra Leone, analogamente alla Liberia, i buoni propositi di essere un'isola felice nel deserto di disperazione africano sono naufragati, sotto i colpi dell'Ebola prima, del Covid poi e di una povertà diffusa che ha fatto da fil rouge a tutta la storia nazionale. Per questo motivo, ma non solo, la qualificazione della Sierra Leone alla Coppa d'Africa assume un significato particolare. Un successo che ha in Isha Johansen una delle sue figure di riferimento. Figura che, come spesso accade quando si parla di stati africani, risulta alquanto controversa.

Isha Johansen, infatti, è la Signora del calcio della Sierra Leone. Prima donna in assoluto a diventare presidente di una federazione calcistica (nel 2013), Isha ha gettato le sue radici nel football locale dieci anni prima, quando ha fondato il FC Johansen. La squadra, nata nel 2004, si è proposta fin da subito con una missione che non suona certo nuova da quelle parti: essere la terra promessa dei giovani sierraleonesi. Passano appena quattro anni dalla fondazione del club quando la squadra u16 di allora batte in finale di Swiss Cup il Liverpool. Il metodo di Isha Johansen, sorella di Abdul Tejan-Cole, Commissario della Commissione Anti-Corruzione in Sierra Leone, e moglie del console di Norvegia e Svezia Arne Birger Johansen, attira le attenzioni dei vertici governativi della Sierra Leone che, fin da subito, vedono di buon grado una sua possibile candidatura a capo della federazione nazionale. Così, nel 2013, con gli endorsment di ministri e potenti dello stato, Isha batte alle elezioni il suo principale avversario, Mohamed Kallon, ex centravanti dell'Inter. Gli screzi tra i due raggiungono vette da teatro dell'assurdo, ma non è solo la rivalità con Kallon (e con il suo Kallon FC) a preoccupare la neopresidentessa. Infatti, ad appena un anno dalla nomina, l'infezione di Ebola scoppiata nella vicina Guinea arriva anche in Sierra Leone: le altre nazionali, coinvolte nelle qualificazioni di Coppa d'Africa e che devono affrontare la Sierra Leone, cominciano a cancellare gli impegni. I giocatori della nazionale colpita dalla malattia si sentono trattati come appestati. Inizia un calvario che coinvolgerà tutti gli stati del golfo e che durerà almeno fino al 2016. Anche se gli strascichi del virus - 11325 morti su circa 28 mila casi conclamati - verranno riassorbiti, qualche anno più tardi, dal Coronavirus che ha messo in ginocchio il mondo intero dal 2020.

“La narrativa sulla Sierra Leone racconta di bambini soldato. Ho pensato che attraverso il linguaggio del calcio e il potere del calcio, avrei potuto cambiare quella narrativa”. Con queste dichiarazioni, rilasciate alla CNN il 1 maggio del 2021, Isha racconta il sogno che ha provato a costruire. Attualmente, siede al tavolo di consiglio della Fifa, ed è ormai una figura di riferimento del calcio africano, non solo della Sierra Leone. Le guerre di potere, spesso, lasciano zone d'ombra anche sulle migliori intenzioni, quando si parla di politica - calcistica e non solo - in Africa. Per questo, è sempre complicato esprimere giudizi netti sui personaggi pubblici. E per questo, non è nostra intenzione farlo. La storia di Isha resta quindi appesa tra il miracolo e la mistificazione, tra i flagelli di una nazione senza pace e uno sport, il calcio, che ha dato finalmente un motivo di speranza, almeno per questo 2022 appena iniziato. Ed il modo migliore per chiudere, è riprendere le parole di John Keister, inglese di nascita, sierraleonese di origine e, oggi, ct della nazionale: “La nostra è una Nazione con un sacco di cicatrici. La guerra, Ebola, ne abbiamo passate molte. Il calcio non è sempre stato là per dare un po’ di sollievo, e un pizzico di speranza. Noi oggi ci siamo. È questo, l’obiettivo che vogliamo provare a raggiungere”.
 

8ª PUNTATA / L'ERBA DEL VICINO - Un viaggio iniziato dal 6-1 rifilato dal Bodo Glimt alla Roma. Football for all è il motto che la Federazione di calcio norvegese, che "non sembra tanto finalizzata alla produzione di talenti o allo sviluppo interno del proprio sistema, quanto quello di voler offrire un servizio che possa essere coinvolgente e allo stesso tempo utile"


Milano, quasi le sei di sera. Lungo i Navigli, trovo fortunosamente un pub disposto a farmi vedere in televisione Bodø/Glimt-Roma. Dalla faccia basita del titolare del locale, capisco che la neonata Conference Europa League non ha ancora fatto breccia nel cuore di tutti i tifosi. Eppure, con fare disinvolto ed un accento indocinese piuttosto marcato, l’uomo asseconda la mia richiesta. “Roma? Roma contro? Ah, Bodo Glimt? Pinguini!” è il tenore dei precoci sfottò che comincia riservarmi sbeffeggiante, mentre nello schermo migliore, quello più grande e con l’audio attivo, capricciosamente cerca la contemporanea partita della Lazio. Segni del destino? Non credo, ma ordino una birra. L’unica cosa che so della Norvegia fino a quel momento è il freddo, che spero di ritrovare nel bicchiere in arrivo.

Football for all, è il motto che la Federazione di calcio norvegese ha scelto per cavalcare l’onda di entusiasmo portata dai mondiali di Francia ’98, quando la squadra scandinava riuscì ad approdare agli ottavi di finale. Per la seconda volta, a sessant’anni esatti dalla prima, la Norvegia esce agli ottavi di una competizione che, al netto di quelle due partecipazioni, ha frequentato solamente un’altra volta, nel ’94 - a dimostrazione che gli anni Novanta siano stati il periodo di massima del calcio norvegese. Insomma, una piccola, dal punto di vista tanto sportivo quanto in termini di popolazione, con poco più di cinque milioni di abitanti. Eppure, di questi pochi – ma ricchi – norvegesi, almeno 325 mila giocano a calcio, giusto per sottolineare l’importanza di questo sport ad Oslo e dintorni. E questo non stupisce, soprattutto se si iniziano a contare i grandi nomi di calciatori norvegesi che bazzicano ormai stabilmente nei top club europei. Haaland, Ødegaard, King, Berge, Ajer, Thorsby, sono solo alcuni dei norvegesi più importanti del panorama calcistico europeo, con Haaland a fare ovviamente da carro trainante. Ma il primo fu proprio Ødegaard, che appena quindicenne venne acquistato dal Real Madrid, dopo essere cresciuto nelle giovanili dello Strømsgodset ed aver scomodato i produttori di Football Manager per essere inserito nel database del gioco anche se non ancora sedicenne.

Malgrado i grandi campioni di cui conosciamo i nomi, quello che trascina veramente il tifo e – quindi – la formazione di una cultura calcistica è il calcio amatoriale. Non per caso, questo sport è davvero collettivizzante, al netto anche di una fetta di tifosi norvegesi che guarda forse più volentieri una partita di Premier League inglese piuttosto che una di Eliteserien. Una dimostrazione di quanto conti il calcio amatoriale in Norvegia è data anche dalle infrastrutture, non ultimo un caso che era diventato virale qualche tempo fa di uno degli stadi considerati “più belli del mondo”. Ad Henningsvær, infatti, incastrato tra le rocce di un piccolo arcipelago di pescatori, c’è un minuscolo impianto che farebbe invidia alla stragrande maggioranza degli stadi italiani, ed è ovviamene dedicato alle partite delle squadre del posto. Note di costume e consigli turistici a parte, abbiamo appena accennato di un concetto di cultura sportiva che, necessariamente, deve nascere dal basso – quantomeno parlando di età. E, sulla falsariga del Football for All, quindi di un motto inclusivo, ogni anno si disputa in Norvegia la più grande competizione di calcio giovanile del mondo.

Con un picco di 2199 squadre iscritte nel 2016, la Norway’s Cup è senz’altro uno degli appuntamenti a cui ogni ragazzo o ragazza che gioca a pallone da quelle parti vorrebbe partecipare. Se non altro, visto il coinvolgimento di squadre da ogni parte d’Europa: fondata dal Bækkelagets Sportsklub nel 1972, la competizione ha coinvolto giovani da oltre 120 nazioni e costretto a sforzi organizzativi non indifferenti. Ogni anno, infatti, sono 60 mila le ore che i quasi 3 mila volontari dedicano al club organizzatore, affinché la Norway’s Cup si possa confermare un successo. Insomma, la prerogativa del calcio norvegese non sembra tanto finalizzata alla produzione di talenti o allo sviluppo interno del proprio sistema, quanto quello di voler offrire un servizio che possa essere coinvolgente e allo stesso tempo utile. Non per caso, i ragazzi che arrivano come ospiti ad Oslo per la Norway’s Cup, avranno accesso libero a tutti i musei della città, mentre altri ragazzi, che ad Oslo mai avrebbero pensato di andare nella vita, grazie ai finanziamenti ai club in zone di difficoltà, avranno la possibilità di uscire dai propri confini per vivere questa esperienza.

E se questo è il biglietto da visita che il calcio norvegese presenta all’esterno, quello che succede all’interno è ancora tutto da scoprire. Una componente importante nel calcio giovanile norvegese è rappresentata dalla Tine. Infatti, dal 1997, la più grande cooperativa di prodotti lattiero caseari della nazione collabora a stretto contatto con la federazione, portando avanti il progetto chiamato Tine Football School. Da allora, almeno 1,5 milioni di bambini sono passati le accademie della Tine sparse per tutto il paese. Sono 430 i centri di allenamento e almeno 10 mila gli istruttori coinvolti, all’interno di un programma che coinvolge circa 70 mila bambini. Numeri impressionanti anche per una grande azienda da 20 miliardi all’anno, per di più non certo specializzata nel settore. A spanne, potrebbe ricordare il sistema che Red Bull ha portato nel mondo del calcio, per cui ogni club che è entrato nella sua orbita ha apposto il marchio aziendale al nome societario. In questo caso, invece che di uno o più club, si tratta di un vero e proprio programma sportivo nazionale.

Sono quasi le otto e furbescamente penso che andare in bagno, pagare il conto ed uscire dal locale sia la soluzione migliore per evitare ancora dieci minuti di infame agonia. Il risultato è compromesso, di gol ne abbiamo presi quattro e fatto appena uno, come mi ricorda il solito barista. “Mourinho non è più quello del Triplete” ha suggerito per tutta la serata, interrompendo saltuariamente la voce dei cronisti Sky che, dalla saletta accanto, decantavano le gesta di Lazio-Marsiglia. Chiudo la porta del bagno, controllo di avere il portafogli e mi dirigo verso l’uscita, senza voltarmi a prestare un ultimo sguardo verso la disfatta della mia squadra del cuore. Solo gli sbuffi sghignazzanti dei miei amici, che già mi aspettano fuori dal locale, mi fanno scoprire ciò che, forse, avrei scoperto qualche minuto più tardi. Ecco, per colpa di quel bruciante 6 a 1, e di uno scottante 2 a 2 nella gara di ritorno, mi sono iniziato a chiedere cosa ci fosse – oltre al freddo e al buio – nell’affascinante Norvegia.

 

1ª PUNTATA / L'ERBA DEL VICINO - Ricominciano gli editoriali di giocaacalcio.it con una nuova rubrica a cura del giornalista-giramondo Mattia Pintus, che racconta l'Aspire Academy, una vera e propria macchina costruita dal governo per sviluppare il calcio in Qatar, il paese che il prossimo dicembre ospiterà la prima edizione invernale dei mondiali di calcio


Akram Afif tira un rigore perfetto. Dopo aver segnato, calcia il pallone di ritorno dalla rete direttamente in curva, con una carica esplosiva da homerun nel baseball. Si toglie la maglia, va in corner attorniato dai compagni per esibirsi in una pugilistica esultanza. Scorre il minuto 83 sul cronometro della finale di Coppa d’Asia, ma il risultato è ormai scritto: Qatar tre, Giappone uno. Akram esulta ancora, “finalmente” avrà pensato. Dopo sette assist e nemmeno un sigillo, può valere di consolazione una rete decisiva in finale. La sua esultanza però, parte da più lontano di quell’1° febbraio del 2019. Bisogna tornare a dieci anni prima, quando nel 2009, dalle giovanili dell’Al-Sadd, passa come studente a tempo pieno presso l’Aspire Academy. Classe ’96, Akram ha solo tredici anni quando entra nel circuito del reclutamento qatariota: una vera e propria macchina costruita dal governo per sviluppare il calcio in Qatar, il paese che il prossimo dicembre ospiterà la prima edizione invernale dei mondiali di calcio.

L’Aspire Academy nasce, per decreto dell’Emiro, nel 2004. Ben prima dell’assegnazione ufficiale dei mondiali del 2022, ma certo con le sottintese intenzioni di un progetto a lungo termine, rivolto a tutti gli sport. Una scelta governativa quindi, che ha visto massimizzare le forze al fine di ottenere dei risultati. E parte dei successi che l’Aspire Academy ha conquistato - e che culminano in ambito calcistico con la Coppa d’Asia del 2019 – sono figli, come detto, di un sogno. Football Dreams, esattamente, è questo il nome dell’azione umanitaria legata al calcio che l’Aspire Academy ha creato nel 2007. Una selezione incredibile di ragazzi, generalmente tredicenni, che passano al vaglia degli scout qatarioti: un’iniziativa che, tra il 2007 e il 2014, ha coinvolto 3,5 milioni di potenziali talenti provenienti da tutta l’Africa e da parte di Asia e America Latina. Sotto gli occhi attenti degli osservatori, tra cui Josep Colomer, colui che al Barcellona si accorse per primo di Lionel Messi e che si è fatto promotore del progetto, sono tantissimi i ragazzi che entrano nell’imbuto: dal Senegal al Ghana, dal Camerun al Sudan, Football Dreams non fa sconti. Ma di tantissimi che si presentano, solo venti saranno i fortunati che sbarcheranno a Doha, con una borsa di studio per l’Aspire Academy.

Insomma, quello che nasce come un ambizioso progetto umanitario, subito rivela le contraddizioni di una corsa a premi. Quasi di un reality, se si pensa al colpo d’occhio dell’Aspire Zone, il centro sportivo dell’accademia a Doha. Due stadi, centodiecimila posti complessivi, piscina olimpionica, ospedale, torri, grattacieli e quant’altro annesso. Si vede il peso specifico di un investimento che è stato soprattutto economico. Eppure, lo slancio di frenesia derivato dai mondiali in patria, ha avuto bisogno di una macchina industriale alle spalle per consolidarsi: e l’obiettivo dell’Aspire non è mai stato soltanto quello di offrire alla nazionale un ventaglio di promesse tecnicamente valide, ma specialmente di trarre un profitto dal lavoro di tracciamento di tutti i ragazzi visionati. Attualmente, infatti, l’Aspire possiede tre club in Europa (l’Eupen in Belgio, il Cultural Leonesa in Spagna e il LASK Linz in Austria) e ha avviato una partnership con il Leeds, in Inghilterra. L’ambizione è quella di diventare il miglior vivaio al mondo e, perché no, di guadagnarci: magari, facendo leva sul contributo di solidarietà imposto dalla Fifa che va alla squadra formatrice, per cui rientra del 5% di ogni singolo trasferimento di un calciatore in proporzione al tempo di militanza nel club tra i 15 ed i 23 anni.

Il calcio in Qatar, quindi, sembra essersi industrializzato. E segue, tra l’altro, le logiche di un’industrializzazione aggressiva, che ha varcato ben presto i confini nazionali, pur di espandersi. Non stupisce che la vita di un tredicenne che entra nel mondo Aspire sia sottoposta al duro stress del lavoro quotidiano: sveglia alle 6.30, colazione alle 7, lezione di arabo alle 7.30, palestra alle 10.15, pranzo alle 12.15. Seguono relax in biblioteca, altre ore di studio, altri allenamenti, altro svago. Un ritmo quasi monastico per ottenere uno scopo ben preciso: emergere (ed essere profittevole).

Il caso del Qatar richiama in parte ad un altro fenomeno di “sfruttamento sportivo” di minorenni. Chiunque abbia letto l’autobiografia di Andre Agassi, Open, ricorderà i ritmi sfrenati che il campione americano ha vissuto negli anni dell’adolescenza, passati all’accademia di Nick Bollettieri in Florida. E dai racconti di Agassi, si percepisce che il suo non fosse un semplice caso isolato, ma una goccia all’interno di un sistema di iper-competitività qual era il circuito tennistico giovanile negli USA degli anni Ottanta. Ed il progetto Aspire, corredato da quello di Football Dreams, ha tutti i tratti tipici di una sceneggiatura distopica, fatta di alienazione e promesse, di quelle che – però - hanno un lieto fine sempre incerto. Quello che è sicuro, è che negli ultimi dieci anni il calcio non può fare a meno di non guardare al Qatar come ad un attore principale, un attore politico, ma come visto anche sportivo; si tratta di un risultato se non altro sbalorditivo, anche al netto di metodi, come detto, a tratti quasi da serie televisiva.